Nelle motivazioni di condanna a due affiliati alla ’ndrangheta i giudici inchiodano l’ex assessore regionale di Fratelli d’Italia arrestato nel 2019
Non è una condanna per carità, ma è un giudicato che rischia di incidere pesantemente sull’esito processuale dell’ex assessore regionale di Fdi Roberto Rosso a processo per voto di scambio politico mafioso. Le motivazioni della sentenza su due boss della ‘ndrangheta (condannati nel filone celebrato con rito abbreviato, per voto di scambio) che avrebbero ricevuto da lui 7900 euro in contanti in cambio di voti, sono un vero e proprio atto d’accusa verso l’ex politico finito in carcere poco più di un anno fa.
Dice il giudice che Rosso fosse pienamente «consapevole» della mafiosità di Onofrio Garcea (capo locale della ‘ndrangheta a Genova) e di Francesco Viterbo. Aggiunge: «Non si rinviene alcuna ragionevole spiegazione alternativa al fatto che un politico di lungo corso come lui, che ha investito molto al fine di essere eletto nella competizione elettorale regionale, sia sceso a compromessi con due sconosciuti, che si sono presentati all’incontro con lui richiedendogli la somma di 50 mila euro per il loro intervento nella campagna elettorale a suo vantaggio». Ancora: «Gli imputati non provengono né dal mondo politico, né da quello imprenditoriale; pertanto, il patto non può che essere stato raggiunto sulla scorta della consapevolezza che, in virtù della loro appartenenza mafiosa, Garcea e Viterbo avrebbero potuto portare a vantaggio di Rosso il consenso sociale acquisito per effetto dell’esercizio della forza di intimidazione».
Rosso, difeso dai legali Giorgio Piazzese e Franco Coppi, è attualmente a processo in aula bunker. Non ha ancora parlato, né a chiesto di farlo. Lo farà, si dice tra i legali. Ma molto ha già spiegato in sede di interrogatorio. Il cuore della difesa: «Non sapevo che fossero dei mafiosi». Il giudice che ha condannato i presunti concorrenti nel reato contestato ha però messo in fila altri fatti che, pur se riferiti ai due boss imputati, non possono che chiamare in causa l’ex onorevole. «Stride con la logica – si legge – che Rosso, dopo un lungo cursus honorum nel mondo politico, si sia affidato a all’amica Enza Colavito (imputata anche lei e descritta nelle carte come una faccendiera che mise in contatto Garcea a Viterbo con l’ex assessore) senza acquisire la benché minima informazione sul loro conto». Riporta, a rinforzo del concetto, un passaggio dell’interrogatorio di Rosso davanti ai magistrati Paolo Toso e Monica Abbatecola che gli chiedevano se avesse promesso del denaro a degli sconosciuti. Lui replicò: «Si, sarò da perizia psichiatrica».
Ma c’è ancora il modo utilizzato per corrispondere ai complici i soldi promessi a corroborare – secondo il giudice – il ruolo attivo di Rosso nel presunto patto scellerato. «La somma promessa è evidentemente superiore a quella riservata ad altri collaboratori e al contrario di altri casi Rosso prelevò i soldi in contanti per rimanere sottosoglia». Cosa accadrà adesso? Il processo in cui il politico è imputato deve ancora concludersi, non vi è ancora sentenza. Va detto che Rosso rischia – in caso di condanna – una vera e propria stangata: da 10 a 15 anni, mitigata almeno di un terzo per la concessione delle attenuanti generiche (perché incensurato).
Ma – sia chiaro – potrebbe anche essere assolto. — Giuseppe Legato, La Stampa