L’ex assessore regionale di Fdi deposita una perizia psichiatrica: “Ho peccato di superficialità per via della malattia, ma sono innocente”
Il piede si muove nervosamente per tutte e cinque le ore di interrogatorio. Sbatte sotto la sedia dell’imputato in aula bunker dove Roberto Rosso, ex assessore regionale, parla per la prima volta dopo l’arresto del dicembre 2019 e risponde all’accusa di voto di scambio politico mafioso. Soldi a due boss per avere voti.
Ma il tono è fermo, la voce sicura, mentre spiega al collegio di giudici di Asti che «no, non avevo avuto la minima percezione che fossero mafiosi e nemmeno poco raccomandabili. Sembravano due persone qualunque che avrei potuto incontrare al mercato. Sarò stato superficiale, ma mi è stato spiegato che può essere una conseguenza della bipolarità di cui soffro». La perizia psichiatrica che lo attesta è firmata da un professionista incaricato dal giudice della fase cautelare. E’ stata acquisita nel processo, ma non fa cenno a semi infermità mentali al momento della condotta di reato contestata. E’ la diagnosi di un disturbo che al contempo ribadisce la lucidità dell’imputato.
Resta la carta dell’inconsapevolezza che Rosso getta sul tavolo del maxiprocesso con convinzione: «Se avessi saputo, intuito li avrei allontanati come già mi era capitato a Venaria e Moncalieri. Proprio qui, nella mia città mi avevano invitato a una cena elettorale con 250 persone (fa il nome di un ex assessore di centrosinistra). Mi dissero che quel bar in cui avrebbe dovuto svolgersi l’incontro era frequentato da persone poco raccomandabili. E annullai tutto». Di Onofrio Garcea, ambasciatore in Liguria della ‘ndrangheta spedito dalle cosche a ricostruire il clan dei vibonesi in provincia di Torino precisa: «Non mi ha nemmeno mai detto il cognome». E dell’interpellanza parlamentare che aveva firmato in cui Garcea figurava come mafioso a tutto tondo, spiega: «Fu il mio collega del Pd Stefano Esposito a chiedermi di mettere la firma per chiarire una vicenda di rapporti inopportuni». Come dire: non ha nemmeno letto. «In Transatlantico si fa cosi». Pausa. «Ho sottoscritto circa 200 interpellanze negli anni da deputato».
La procura lo accusa di aver pagato 7900 euro a Garcea e a Francesco Viterbo già condannati. «Non è andata cosi. Fu Enza Colavito (collaboratrice delle campagne elettorali di Rosso e imputata anche lei) a parlarmi di queste persone che avrebbero potuto darmi una grande mano nelle periferie. Chiedevano 50 mila euro, ma la cifra era irragionevole: avrebbe comportato – per come intendo io la campagna elettorale – l’organizzazione di 8/9 cene in 15 giorni. Impossibile. Dissi a quei due che avrei garantito fino a un massimale di 15 mila euro e che avrei pagato a tranche in base all’impegno. Alla fine non mi hanno votato nemmeno i loro parenti: erano dei cacciapalle». Il pm Paolo Toso lo incalza. Chiede come sia stato possibile affidarsi a una persona che nemmeno gli ha detto come si chiama, gli ricorda i ritiri sottosoglia in contanti di cui non vi è traccia nei rendiconti del mandatario. Rosso replica: «Se due persone mi vengono indicate da una persona fidata e da suo marito ex maresciallo e in forza ai servizi segreti, credo di essere tranquillo».
Ancora: «Un giorno vidi Viterbo che caricava sull’auto scatoloni dei miei volantini. Mi disse che stava togliendo tempo al lavoro, che aveva bisogno di un contributo. Gli diedi 2900 euro in contanti che aveva ritirato in banca sottosoglia. La procura ha prodotto l’estratto del conto corrente. Quel giorno Rosso ha inviato al mandatario un bonifico tracciato di 35 mila euro, ma i soldi per Viterbo li ha ritirati cache. «Solo dopo il voto ho dato 5 mila euro a Enza Colavito perché avevo capito che la stavano pressando e non volevo avesse problemi. Le dissi: fanne quello che vuoi». Quei soldi finirono nelle mani dei boss delle ’ndrine. Giuseppe Legato, La Stampa