Il boss vecchio stampo votato al narcotraffico, il «padrino» ormai anziano cercato volentieri da pezzi della politica in cerca di voti e il giovane rampante che fa il pieno di follower sui social. Si chiude con l’immagine di un darwinismo criminale un’era giudiziaria, quella di Minotauro, la più grande operazione contro la ‘ndrangheta in Piemonte che dieci anni dopo gli arresti, è da considerarsi esaurita in tutti i gradi di giudizio. Era iniziata in una notte del 2006 quando nel carcere delle Vallette Rocco Varacalli disegnava sulla parete della cella un uomo in croce e due persone che lo infilzavano con delle lame. Dirà poi a verbale «Erano il magistrato Roberto Sparagna, (oggi alla Dna) e il maresciallo dei carabinieri Luigi Salerno» che lo avevano arrestato poco prima per traffico di droga. Quella notte Varacalli si pentì e parlò per quattro lunghi anni. I carabinieri della prima sezione del nucleo investigativo di via Valfrè insieme ai colleghi di Venaria e Ivrea (guidati dagli ufficiali Vincenzo Bertè, Domenico Mascoli e Antonio Bagnato) trovarono riscontri su riscontri coordinati proprio da Sparagna e dalla collega Monica Abbatecola. Il blitz scattato l’8 giugno 2011, invertì il rullo tradizionale delle notizie dei Tg di primo mattino. Centocinquantatre arresti, altrettanti indagati, 100 milioni di euro di beni confiscati. Dice Sparagna, cercato da La Stampa: «Minotauro è stato uno spartiacque nella storia giudiziaria nazionale insieme a Crimine e Infinito. Ha evidenziato l’unitarietà di questa mafia che ha replicato i suoi modelli ormai in ptessocchè tutte le regioni d’Italia».
Ieri si è chiusa questa era giudiziaria con la condanna definitiva sancita dalla Cassazione per Rosario Marando, Giorgio Demasi e Domenico Agresta che sono poi lo specchio dell’evoluzione della mafia calabrese in Piemonte. Da Demasi, «cercato» con cordialità da alcuni politici del Pd a caccia di voti in occasione delle primarie del 2010 per il candidato sindaco di Torino, a Marando, erede di un casato che con la cocaina ha cambiato la storia della ‘ndrangheta trasportandola in una dimensione mondiale, fino ad Agresta, campione di crossfit, emblema di quella mafia mimetica, dal volto gentile. Sui social: 5 mila amici e 2000 followers. È il segno della mafia che cambia, che si confonde nel mondo di tutti continuando a seminare illeciti. Che viene cercata dalla politica («che sennò poi quando ci sono le elezioni chi glieli trova i voti?»), sempre immersa nel business più redditizio dell’associazione (il traffico di cocaina) o a caccia di legittimazione sociale spendendo un profilo pubblico perfettamente integrato nella modernità. Che però è allergica ai giornalisti. L’altroieri sera mentre la nostra fotografa Barbara Torra stava documentando le fasi dell’arresto di Agresta a Volpiano, qualcuno – legato all’arrestato – si è avvicinato all’auto della reporter: «Prendigli la targa» ha detto al suo amico. Perché nonostante il volto friendly, il metodo mafioso non cambia mai. Giuseppe Legato, La Stampa