L’organizzazione criminale attende il ritorno dei boss per ridisegnare le gerarchie di Torino
La ‘ndrangheta a Torino? Un cantiere in evoluzione. Per capire cosa sta avvenendo davvero tra le ‘ndrine del capoluogo piemontese ormai da 50 anni inquinato dalla consorterie di origine calabrese bisognerà aspettare marzo 2021. Tra pochissimi mesi è infatti prevista – per ammissione del suo stesso avvocato – la scarcerazione di Adolfo Crea, 46 anni, originario di Stilo, alta costa Jonica reggina. Suo fratello Aldo Cosimo dovrà aspettare altri due anni e poi anche per lui le porte del carcere si spalancheranno. Per capire perché siano considerati i veri “capi” della mafia torinese basta guardare il regime carcerario scelto dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) per la loro detenzione: il 41 bis. In Piemonte non era mai stato applicato prima di allora. Ecco perché tra gli investigatori serpeggia la convinzione che fin quando ciò non avverrà – cioè fin quando i Crea saranno fuori dal carcere – non si potranno capire i nuovi equilibri.
Capi veri i Crea, figli di una ‘ndrangheta arcaica, violenta, risoluta. Che controlla il territorio attraverso le bombe e le estorsioni. Tecnicamente si dice “estrinsecando il loro potere mafioso”. Con reati “fine” che sono spia della caratura criminale, ma che allarmano il territorio in particolar modo una fetta del Nord come il Piemonte da anni caratterizzato da una sospinta strategia di sommersione. Tutto l’opposto del mantra delle altre potentissime famiglie (soprattutto a Volpiano) dislocate in città e nell’hinterland che alle bombe preferiscono “le parole”. Alle betoniere saltate in aria prediligono “la tangente legalizzata”. E cioè costringere i costruttori a rifornirsi dai loro produttori di fiducia o da ditte amiche dei boss. Pagare senza rumore.
I Crea sono al 41 bis perché “affiliavano nuove leve in carcere – nell’ora d’aria o in palestra -, celebravano i riti arcaici della ‘ndrangheta in nome dei cavalieri di Spagna ristretti dietro le sbarre del Lorusso e Cutugno, mandavano all’esterno messaggi durante i colloqui, decidevano quali vittime “attenzionare” e quali “stringere” con il loro marchio di fabbrica: le estorsioni”. Con una certezza: “State attenti, perché specialmente noi siamo visti con i binocoli 24 ore su 24. Non ci vengono dietro (non ci pedinano), ormai la legge lavora diversamente con microspie e microfono direzionali”.
Dalle ingerenze nei guadagni degli ultras della Juventus (degli anni scorsi), al pizzo su negozi e imprenditori, agli attentati dinamitardi ai circoli di poker texano (quello di via Salerno, l’Hermitage) che non si allineano alle quote da pagare a titolo di protezione, sempre loro, i Crea, hanno dettato la linea della ‘ndrangheta non sempre ben digeriti dalle famiglie della provincia che avevano scelto profili differenti. Droga a tonnellate, ma nessuna esposizione pubblica del potere mafioso.
Scappati da Stilo a cavallo dell’entrata in vigore dell’euro per sfuggire a una sanguinosa faida con le famiglie Gullace Novella che pure era costata ai fratelli un attentato violentissimo da cui erano usciti miracolosamente salvi, già dal 2003 un’intercettazione ne fotografò l’assoluto spessore criminale: “Abbiamo Torino in mano” disse uno dei loro soldati alla fidanzata che gli chiedeva conto dei troppi soldi che giravano nelle sue tasche. “Mio compare è il capo di Torino, comanda tutto. Anche se devi ammazzare uno devi chiedergli il permesso”. Quell’uomo era Giacomo Lo Sirdo, soldato fidatissimo dei fratelli di Stilo e suo compare era Adolfo Crea.
Un ruolo di vertice assoluto confermato nell’indagine Minotauro (che li vide condannati per 416 bis) quando in una lavanderia di Siderno (Rc) due indiscussi capi della mafia calabrese dissero a proposito dei Crea che “sono roba del Crimine”, cioè di San Luca, la “mamma” della mafia calabrese nel mondo.
Coperti dai vertici dell’Aspromonte (“Sono roba dei Pelle” dicono i boss intercettati) e dotati di ciniche e spietate ambizioni di conquista, i due fratelli hanno scalato a piè pari le gerarchie delle famiglie mafiose del Piemonte. E quando qualcuno li ha sfidati è morto in un misterioso agguato. Com’è successo a un vecchio boss di Settimo, Giuseppe Gioffrè, che si lamentava della spregiudicatezza della coppia Crea (mai indagata per questo delitto): “Che stiano alla larga dove ci sono io – diceva in una telefonata intercettata -, se questo rompe i c… davvero ci saranno brutte discussioni. Questo zingaro di m… (Adolfo Crea) che è scappato da casa sua..e viene qua…e comanda qua sopra”. Gioffrè fu ucciso a Bovalino il 28 dicembre 2008. Delitto, tutt’oggi, irrisolto. Quando tra poco usciranno dal carcere, le fragili gerarchie mafiose del territorio salvaguardate in parte dopo le numerose inchieste della Dda, saranno inevitabilmente ridisegnate. O – nell’attesa della loro scarcerazione – non sono mai cambiate.
L’ultimo in ordine di tempo ad aver parlato di loro è il collaboratore di giustizia Domenico Agresta: “Aldo Cosimo Crea, in carcere, mi disse di riferire a mio padre che era disposto a farmi andare avanti con le doti”. Risultato? Agresta acquisì i gradi di “quartino, trequartino e padrino” in poco tempo. “Parlarono anche del delitto del procuratore di Torino Bruno Caccia. Questa però è un’altra storia. Giuseppe Legato, La Stampa