Sono i luoghi che nascondono gli scarti della società e fruttano fiumi di denaro, spesso senza adeguate tutele per l’ambiente. Con un ruolo chiave per le famiglie della criminalità organizzata
Parchi, aree verdi, cantieri, capannoni abbandonati lungo le provinciali, ma soprattutto campagne. Terreni che quasi si nascondono nella vastità agricola della pianura padana, dove lo sguardo nei campi si perde e il pensiero fisso della produttività premia chi non distoglie lo sguardo dalle proprie tenute. Messi però in fila, o segnati su una mappa, assumono un altro aspetto, decisamente più inquietante. Sono le terre avvelenate, poderi affogati dagli inquinanti oppure utilizzati come nascondiglio illegale per qualsiasi tipo di rifiuto e quindi altrettanto intossicati. Sono 110 i luoghi attenzionati (e in alcuni casi sequestrati) dopo le inchieste realizzate dalle dda di Milano e Brescia, quasi tutte nate nell’ambito di indagini sul traffico di rifiuti negli ultimi due anni: una stima al ribasso, che tiene conto solo delle aree emerse da inchieste che hanno portato a primi risultati e che non calcola zone su cui sono ancora in corso le indagini. Sono i luoghi della coscienza sporca e a tenerli insieme è una costante: nascono tutti dall’esigenza di qualcuno di trovare spazi in cui nascondere ciò che non vogliamo intorno a noi, lo scarto delle nostre attività umane, che siano le macerie di un cantiere edile nel centro di Milano, i resti del vecchio asfalto di una strada provinciale o i fanghi dei nostri scarichi non trattati da un’azienda con i certificati di qualità apparentemente in regola. E il collante perfetto è il desiderio di qualcun’altro di farci dei soldi, su tutta questa spazzatura nascosta.
Le inchieste
Una delle ultime e più clamorose inchieste è quella che ha coinvolto la Wte di Brescia, azienda specializzata nel recupero dei fanghi che però, hanno scoperto i carabinieri della forestale, li depurava poco e niente. E, cosa peggiore, li faceva uscire come concime “gessi da defecazione”, mentre erano in realtà rifiuti. E non si facevano scrupoli nello spargerli sui terreni agricoli di mezza Lombardia, a prezzi stracciati per gli agricoltori che – ignari o in mala fede – pensavano di fare un grosso affare. 78 terreni tra le province di Brescia, Milano, Lodi, Como, Pavia, Mantova e Cremona, a cui se ne devono aggiungere anche altri sparsi per il nord Italia. Da Lonato del Garda, dove il sindaco ha emanato un’ordinanza che blocca il raccolto del mais, ai campi di Gussola che costeggiano il Po nella provincia cremonese. Il livello di danno all’ambiente è ancora da calcolare, spiega l’avvocato Alessandro Asaro che assiste i comuni in cerca di risposte: “Stiamo cercando di capire come sarà possibile cominciare a fare le prime verifiche sui terreni senza interferire con il lavoro degli inquirenti”, ha spiegato il legale che conta su una soluzione entro l’estate. Restano impressionanti le intercettazioni a carico degli indagati: “Chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuta sui fanghi…”.
Il trattamento illecito dei fanghi è criminalità sofisticata, roba da ingegneri. Ci sono anche modi più semplici per far soldi nascondendo i rifiuti sottoterra. A Senna Comasco un’indagine coordinata dalla pm Giovanna Cavalleri della Dda di Milano ha scoperto un accumulo di rifiuti in un terreno a destinazione agricola che si trova nella frazione di Gaggio: un’area sottoposta a doppio vincolo, ambientale e paesaggistico. Un quantitativo imponente, circa 85 mila metri cubi di materiale di risulta dei cantieri finito laddove avrebbe dovuto esserci dei campi coltivati a foraggio. Per farlo ad Antonio Mercuri, detto “Tony Imbuto”, vecchia conoscenza degli studiosi di ‘ndrangheta in Lombardia, sono serviti la compiacenza di un ex dirigente del Comune di Senna Comasco, un geologo e il proprietario dell’area.
A Cassano d’Adda, in località Taranta, in pieno parco Adda Nord c’è invece un’altra discarica abusiva: resti di edilizia, ma anche frigoriferi, elettrodomestici, ferro, acciaio, plastica, bitume, rifiuti con mercurio, pneumatici, vernici, batterie al piombo. Collegata a questa discarica era l’impianto di smaltimento Cava Casara a Gessate, dove anche lì arrivava di tutto e fuori dalle regole. E poi il cantiere a Pioltello, in via Madre Teresa di Calcutta, dove si stava cercando di coprire una vecchia discarica con nuovi rifiuti. In questo caso a svelare il “sistema” sono stati i militari della Guardia di Finanza, compagnia di Gorgonzola, coordinati dai pm Francesco De Tommasi e Stefano Ammendola che hanno quantificato una movimentazione di oltre 800mila tonnellate di rifiuti tra il 2016 e il 2020. Tutto materiale che si provava a nascondere sottoterra, come la polvere sotto il tappeto.
A Origgio, in provincia di Varese, a ottobre scorso è stato arrestato Antonio Foti, altro vecchio arnese di ‘ndrangheta: aveva rilevato un’azienda sana per trasformarla in un capannone in cui stivare rifiuti speciali a basso costo, per strozzare la concorrenza e fare soldi risparmiando sui trattamenti. Seguendo i flussi di denaro e le tracce dei camion che movimentano gli scarti, i pm Francesco De Tommasi e Sara Ombra, coordinando il lavoro dei carabinieri del Noe hanno scoperto altri rivoli di questo traffico: la famiglia Magarelli, ad esempio, che gestiva discariche abusive a Milano in via Belgioioso e in via Venezia Giulia, e che al telefono raccontavano di aver sversato rifiuti illegalmente in un terreno vicino all’area Expo. Sei le condanne già ottenute dai pm, più due patteggiamenti.
Nomi e luoghi che ritornano. Come la discarica di Meleti, in provincia di Lodi, citata in almeno due inchieste e addirittura un terreno a San Massimo di Verona, in via Lugagnano 41, richiamato in almeno tre diversi provvedimenti come luogo di scarico scelto da diversi sodalizi. Anche i protagonisti di questa storia criminale, seppur tangenzialmente legati ai clan della malavita organizzata (principalmente ‘ndrangheta), sembrano avere un know-how affinato negli anni: Molinari, Ventrone, Foti, Accarino, Assanelli, Sanfilippo. Cognomi ripetuti in storie che si intrecciano, ognuno che cela un preciso ruolo: ci sono i produttori che vogliono liberarsi dei residui senza ricorrere a troppe formalità, ci sono broker dello smaltimento che trovano i luoghi e piazzano gli scarti, ci sono i trasportatori dell’immondizia. E poi ci sono i sotterratori, quelli che devono essere bravi a nascondere.
Ma come si è arrivati a questo? Il tenente colonnello Massimiliano Corsano, comandante del Gruppo per la Tutela Ambientale e la Transizione Ecologica di Milano (Noe), è forse l’uomo che meglio di tutti conosce la storia recente dei rifiuti nel nord Italia. A capo di un nucleo specializzato che dà lezioni ormai in mezzo mondo su cosa significhi contrastare i reati ambientali, ha idee precise sull’evoluzione degli ultimi anni. “In passato chi guadagnava sui rifiuti in modo illegale faceva sì che questi, intonsi, arrivassero ai termovalorizzatori falsificando la documentazione”. In questo modo riuscivano a fare bei margini sulla differenza tra i soldi che le aziende davano loro per disfarsene e il costo dello smaltimento di materie plastiche senza trattamento. Da quando però la Cina ha chiuso l’importazione dei rifiuti plastici, anche nel mercato criminale interno le cose sono cambiate. I termovalorizzatori italiani sono stati intasati di richieste e i costi degli smaltimenti sono schizzati alle stelle: “da 70 euro a tonnellata a quasi 300”. È quindi diventato più semplice fare soldi senza neanche portare i materiali all’inceneritore, per i criminali. “È cominciata così la stagione degli incendi nelle discariche abusive, parliamo del 2016-2017. Prima in Veneto poi in Lombardia. Bruciare in modo abusivo quei rifiuti era una forma di smaltimento. E anche essere scoperti era difficile, visto che inizialmente si puntava a trovare gli autori dei roghi. Sono state le nostre indagini a mettere per prime in correlazione gli incendi e il traffico di rifiuti”. A cambiare nuovamente le carte in tavola, un episodio più grave degli altri, l’incendio di via Chiasserini del 14 ottobre 2018: per quei fatti sono state condannate 8 persone. “Fu un boomerang per le attività criminali – aggiunge Corsano -, da allora i roghi sono diminuiti e abbiamo cominciato a trovare più capannoni e discariche abusive. L’abbandono è l’evoluzione dell’incendio: una nuova modalità di smaltimento, meno evidente e rumorosa. E c’è adesso ancora un altro tipo di smaltimento illegale che è il traffico transfrontaliero: grandi tratte illegali sono state aperte con l’Est Europa e la Turchia, principalmente di materie plastiche”.
Sarebbe sbagliato però pensare che dietro a tutto ci siano sempre e solo i clan: “Noi definiamo questi come tipici crimini d’impresa, che generano due inquinamenti: uno ambientale e uno dei tessuti economici sani – aggiunge Corsano – Diventa difficile per chi lavora nel lecito sostenere la concorrenza di chi applica prezzi assurdi. Parte di questi traffici sono riconducibili ad aziende che producono in nero e quindi hanno necessità di gestire i loro rifiuti su un mercato parallelo corretto. La criminalità organizzata in quanto tale non si occupa di questi traffici, benché consentano lauti guadagni: casomai i clan si interessano di infiltrazioni in aziende che si occupano delle varie fasi della gestione dei rifiuti, tentando quindi di aggiudicarsi gli appalti”.
A due anni e mezzo dall’incendio nel capannone stipato di rifiuti abusivi in via Chiasserini i cui fumi spostati dal vento invasero il centro di Milano, la giustizia ha già fatto ampiamente il suo corso: il lavoro dei pm Silvia Bonardi e Donata Costa ha portato a otto condanne nel filone principale (dopo appena un anno); sono nate altre due inchieste che hanno portato a nuovi arresti, mentre ancora si sta indagando. La bonifica invece sta facendo il suo di cammino, molto più lentamente. Del lungo percorso di gestione della bomba ecologica, fatta di carcasse di rifiuti bruciati e di balle ancora intonse, in carico a Città Metropolitana, sono completate le prime tre fasi. Dopo la caratterizzazione dei rifiuti è stato fatto un appalto con una serie di indicazioni precise: movimentazione dei residui da demolizione del capannone incendiato, formazione di cumuli allungati dei rifiuti combusti e non combusti, la loro copertura con teli, e “l’acquisizione planivolumetrica di tali cumuli tramite volo con drone” si legge in una nota di Città Metropolitana. Quindi sono stati smaltiti i rifiuti depositati nel capannone denominato area non oggetto di incendio e quelli abbancati sull’area esterna sono stati sottoposti a caratterizzazione. La quarta e ultima fase è partita il 21 maggio, “costituita dalle attività di selezione/cernita dei rifiuti depositati sui piazzali esterni e precedentemente ammassati in cumuli omogenei e dall’avvio a recupero/smaltimento degli stessi” si legge nella nota. La pulizia completa quindi è prevista entro la fine del mese. Ancora peggio è andata a Corteolona, in provincia di Pavia, dove a tre anni dall’incendio ancora non è stato ripulito il capannone incendiato, mentre cinque persone sono state condannate per traffico illecito di rifiuti: avviato l’appalto, si deve ancora procedere alla rimozione dei rifiuti non bruciati. Stanziati 1,2 milioni di euro dalla Regione per l’operazione, non è detto che bastino “anche perché dopo tutti questi anni non conosciamo la profondità della contaminazione e se si dovranno fare ulteriori bonifiche” spiega il sindaco di Corteolona e Genzone Angelo Della Valle.
Storie che, insieme a quella dei comuni lombardi che cercano di capire come riparare ai danni della Wte, ci raccontano di quanto sia difficile intervenire nel vasto mondo delle bonifiche, soprattutto quando a far danni è la criminalità. Anche se è bene distinguere tra i vari tipi di inquinamento. “Per prima cosa è necessario andare a vedere la natura delle sostanze inquinanti – dice Elena Collina docente di Chimica dell’Ambiente del dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’università Milano-Bicocca -. Le più impattanti sono costituite da metalli pesanti piuttosto che sostanze di sintesi, generate dall’attività umana e che quindi non esistono in natura, i cosiddetti xenobiotici. Tra le più pericolose ci sono sostanze che sono classificate come cancerogene, mutagene, teratogene: ma non basta che siano presenti nel terreno, serve capire in quali quantitativi sono stati rinvenuti”. Facile a dirsi, meno a realizzarsi. Per cominciare, caratterizzazioni del suolo e bonifiche hanno costi che dovrebbero essere a carico di chi inquina. Nel caso di luoghi contaminati dagli sversamenti “spesso questi soldi non ci sono ed è l’ente pubblico a doversene far carico”, aggiunge Collina.
Tre paradossi
La storia degli sversamenti e dei rifiuti abbandonati vive di una serie di paradossi. Uno di questi riguarda i regolamenti “sempre molto stringenti ma che a volte finiscono per ostacolare chi si comporta bene, mentre i criminali continuano a essere tali: i controlli, infatti, sono pochi perché le risorse sono quelle che sono” dice ancora Collina. Un altro tema è quello dei soldi pubblici che mancano sempre e quando ci sono magari non si riesce a spenderli in modo costruttivo: “Solo in Lombardia ci sono almeno 3 milioni di euro di sanzioni recuperati dalle Arpa di tutta Italia – dice Barbara Meggetto di Legambiente Lombardia – soldi che arrivano dalle multe a chi abbandona rifiuti irregolarmente: non si sa come spenderli perché manca il decreto”. Si parla di almeno 3 milioni di euro, tema su cui la parlamentare del gruppo misto Rossella Muroni ha presentato un’interrogazione parlamentare. E poi c’è un tema di convenienza economica, almeno per quanto riguarda il recupero delle plastiche: “il punto è che non c’è profittabilità economica – aggiunge Corsano – Molte materie plastiche vergini costano un terzo rispetto alle materie prime seconde, quindi il recupero dei rifiuti semplicemente non conviene economicamente. Il mercato purtroppo registra quasi un’assenza di profittabilità per alcune materie plastiche riciclate e molte aziende preferiscono mischiare l’irrecuperabile con il recuperabile”. Materiali di scarto il cui viaggio imprevedibile, spesso, finisce sottoterra. Luca De Vito, Repubblica.it