Sequestro preventivo da 1,5 milioni di euro confermato. La Cassazione ha respinto il ricorso che era stato presentato da Salvatore Cappa, 53 anni, l’imprenditore edile cutrese coinvolto in Aemilia e ora in carcere a Oristano, e dalla moglie Caterina Gaetano, 46 anni, che ora dovrà lasciare l’abitazione di famiglia.
Il sequestro preventivo frutto della lotta alla ’ndrangheta emiliana risale al 23 novembre 2017, quando la Dia di Bologna ha ottenuto il decreto nei confronti di Cappa, condannato a nove anni dalla Corte d’Appello di Bologna per associazione mafiosa, estorsione e reimpiego di beni di provenienza illecita.
All’imprenditore calabrese, che nel frattempo si è trasferito da Reggio Emilia ad Arcole in provincia di Verona, sono stati sequestrati conti correnti, veicoli, documenti della società Fft global service Srl e quattro immobili: tra questi la villetta di residenza ad Arcole e un appartamento con autorimessa in via Salvemini, a Santa Croce, intestato a un tale Celestino Sassi, nato in Francia ma residente in Italia, risultato poi inesistente.
L’avvocato Fausto Bruzzese, difensore di Cappa e procuratore speciale della consorte (estranea ad Aemilia), ha impugnato il provvedimento della Corte d’Appello che confermava la misura personale della sorveglianza speciale e la misura di prevenzione patrimoniale della confisca emesse dal Tribunale di Reggio Emilia.
Bruzzese ha sostenuto la nullità del decreto nonché una violazione dell’articolo 24 del Codice antimafia relativa alla casa veronese, perché la Corte non ha stabilito in quale misura sia stata pagata da Cappa.
Lunedì scorso la Cassazione ha depositato il responso: ricorso inammissibile su tutti i fronti. In particolare secondo il presidente della Seconda sezione penale Domenico Gallo, sulla villetta la difesa “deduce una violazione di legge, ma di fatto lamenta un vizio della motivazione”, mentre la motivazione è stata esplicitata: “Il bene risulta acquisito nel giugno 2010, nel periodo di pericolosità di Cappa. La società venditrice è rappresentata dalla sorella di Cappa e la vendita servì per dissimulare la reale intestazione dell’immobile. L’importo venne pagato con l’accollo di un mutuo bancario e la Gaetano prima del 2011 non percepiva alcun reddito, sicché per pagare le rate del mutuo è evidente che la stessa utilizzasse proventi del marito”. I ricorrenti sono stati condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di duemila euro in favore della cassa delle ammende. Gazzetta di Reggio