L’avvocato, ex deputato del Psdi, già condannato per concorso esterno, è oggi imputato come uno dei massimi vertici della cupola
Dopo averlo negato per quasi quarant’anni, l’avvocato Paolo Romeo, ex deputato del Psdi, già condannato per concorso esterno e oggi imputato come uno dei massimi vertici della ‘ndrangheta conosciuta, lo ha ammesso: è stato lui a gestire la latitanza del terrorista nero Franco Freda. E non da solo. “Quando io e il senatore Meduri (ex Msi ndr) abbiamo acconsentito a una richiesta di questo genere ci rendevamo conto di compiere una forzatura, una illegalità” ha detto in aula, al processo che lo vede imputato come elemento della direzione strategica della ‘Ndrangheta.
Per Romeo, coprire la fuga del leader dell’eversione nera, all’epoca già imputato per la strage di piazza Fontana e sospettato di aver firmato attentati in tutta Italia, era “un gesto politico”. L’idea – ha detto in aula al processo Gotha – era “che Freda volesse sottrarsi ad un giudizio di un sistema che lo perseguitava”.
Alla sua porta, il terrorista sarebbe arrivato a bussare tramite l’amministratore della tipografia di cui si serviva a Villa San Giovanni. E la richiesta sarebbe stata di una copertura per 15 giorni “diventati mesi nei quali mi ero fatto carico di dare ospitalità a questa persona, anche in modo goliardico. Non avevo l’idea o l’approccio di mantenere un latitante. Addirittura passeggiavamo su Corso Garibaldi. Un giorno – aggiunge – gli presentai il capo della Digos locale”.
Ma a suo dire, quella presenza sarebbe divenuta ingombrante, per questo avrebbe chiesto a Paolo Martino – il cugino di don Paolino De Stefano, il massimo boss dell’epoca – di far espatriare il superlatitante della galassia nera. “Martino acconsentì – ha ricordato Romeo – prese Freda per l’accompagnamento. Non lo fece subito ma chiese a Filippo Barreca di tenerlo 10 giorni. Barreca dopo 10-15 giorni scappa e non lo vuole più tenere a casa sua. Si rivolge a Melino Vadalà (deceduto, ndr) che si fa carico di tenerlo a casa sua e accompagnarlo al confine con la Francia. Posso affermare che Martino non ha mantenuto l’impegno che aveva preso”.
Il racconto di Barreca, uno dei primi pentiti della ‘Ndrangheta reggina, però è un altro. Freda – dice nel 1993 di fronte ai magistrati- non arriva certo per caso a Reggio Calabria. Proprio in quel periodo in città nasce “una loggia massonica super segreta” di cui facevano parte i massimi boss dell’epoca e uomini della galassia nera. “Fondatori ed organizzatori di questa loggia – mette a verbale – furono Franco Freda e Paolo Romeo”. E quel cenacolo segreto, spiega il collaboratore, aveva un gemello. “Mi risulta – dice Lauro ai magistrati – che una filiale di questa loggia supersegreta venne creata anche a Catania da Michele Sindona dove peraltro militavano degli appartenenti all’eversione nera”.
Tutte bugie sostiene Romeo. Sulla latitanza di Freda c’è stata solo “tanta letteratura”, ma – sostiene “in tutta questa storia non ci sono né servizi segreti, né un’organizzazione eversiva ma si è trattato di un atto di solidarietà di alcuni militanti del Movimento sociale italiano”. Un’ammissione che arriva a più di quarant’anni di distanza, quando la prescrizione ha già cancellato quel reato e mentre lui ha accuse ben più gravi da affrontare. Meno di una settimana fa, il neo pentito Seby Vecchio – ex poliziotto e assessore comunale, da sempre organico al clan Serraino – senza esitazioni di Romeo ha detto “era il dio della ‘Ndrangheta e della politica”. Esattamente il ruolo che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e i pm Stefano Musolino e Walter Ignazzitto della Dda di Reggio Calabria gli contestano. Alessia Candito, Repubblica.it