«La ’ndrangheta di Asti ? una pagliacciata. Sparatorie, pistole, non esiste nulla di tutto ciò». Sono parole di Michele Stambè, ascoltato nell’aula sei del tribunale di Asti, nel corso del processo sulla presunta presenza di una «locale» dell’organizzazione mafiosa con base a Costigliole e ramificazioni fino ad Alba e nel Torinese, scoperta dai carabinieri nell’operazione Barbarossa.
«Non ci fu alcuna estorsione, sono solo fantasie» ha detto l’imputato di un procedimento connesso, che era già stato condannato in abbreviato a 20 anni di carcere dal tribunale di Torino perché ritenuto uno degli esponenti del sodalizio criminale. Ha raccontato che con altri due imputati, Fabio Biglino e Alberto Ughetto «eravamo andati solo a fare un giro» da un imprenditore del Torinese che conoscevano. «Ci ha offerto un caffè, due parole e siamo tornati a casa». Anche se alcune intercettazioni telefoniche e ambientali, la maggior parte in dialetto calabrese stretto, smentiscono le ragioni della vista. Come quando andarono da un rivenditore di frutta e verdura di Saluggia, al quale uno degli altri imputati Mauro Giacosa aveva imprestato 20 mila euro. «Ero andato da lui a riscuotere soldi» ammette Stambè, «ma ero andato nella speranza di guadagnarci qualcosa» ha aggiunto sollecitato da alcune domande poste dall’avvocato di parte civile Giulio Calosso (rappresenta i Comuni di Costigliole e Asti e l’unica vittima che si è costituita parte civile).
La famiglia Stambè vive a Costigliole dagli anni Ottanta e ha attività commerciali anche con la Calabria. Non ci furono mai richieste minacciose di denaro secondo Stambè. Ha negato anche il traffico di cocaina ed «erba» dalla Calabria di uno degli altri imputati, Fabio Macario.
Il collegio giudicante, presieduto da Roberto Amerio che ha sostituito Elisabetta Chinaglia eletta al Consiglio superiore della magistratura e composto da Marco Dovesi e Beatrice Bonisoli, ha ascoltato la testimonianza dell’unica persona che si è costituita parte civile, un commerciante di frutta e verdura del Torinese. «Avevo avuto problemi di soldi – ha raccontato ai giudici rispondendo alle domande del pm della Dda di Torino Paolo Cappelli – e Giacosa mi prestò 20 mila euro». Un debito contratto da un «collega» ai mercati generali di Torino, che lo avrebbe aiutato a non chiudere l’attività. «Mi diceva che aveva conoscenze, mi faceva capire che aveva gente malavitosa importante dietro. Era anche amico di Giancarlo Fini e se non pagavo me l’avrebbe fatta pagare lui». «Ricevetti minacce proprio da quello che ora se la ride seduto davanti a me. Mi aveva preso da parte e mi aveva detto che se non pagavo mi faceva saltare in aria» ha ammesso ai giudici. Così si ritrovò il camion smontato e distrutto e due cani avvelenati. Poi estinse il debito a colpi di tre mila euro al mese, interessi compresi.
«Gli doveva soldi da quattro anni. Avevo capito di chi si trattava». Lo ha detto un rivenditore di veicoli di Castelnuovo Don Bosco. «Tu lo devi sapere con chi hai a che fare» si sente in una delle intercettazioni fatte sull’auto di chi si occupava di recuperare crediti secondo il testimone.
Prima di iniziare il processo, il giudice si è occupato di una questione di cuore. Ha concesso il nulla osta per la celebrazione del matrimonio, con rito civile, di Santo Giuliano Caruso, uno degli imputati che si trova ai domiciliari, che potrà sposare la sua compagna il 4 gennaio al castello di Costigliole. Si torna in aula il 14 e il 21 gennaio. Manuela Macario, La Stampa.it