Il potere delle cosche calabresi ha ormai superato quello della mafia siciliana. Le ‘ndrine sono in tutti i continenti, ma hanno scelto la strategia dell’inabissamento: meno violenza più affari puntando sui rapporti con la massoneria
Un’operazione dopo l’altra. Giovedì un terremoto da 334 arresti tra Vibo Valentia e un pezzo d’Europa. Poi la nuova inchiesta che travolge l’assessore regionale piemontese Roberto Rosso per voto di scambio mafioso. Ogni nuova alba è protagonista di inchieste grandi e piccole sull’enorme potere delle cosche calabresi. Clan che non solo soffocano le terre del Sud ma che ormai, e da diversi decenni, hanno trovato la loro terra più fertile nei territori del Nord, Lombardia e Piemonte su tutti. La ‘ndrangheta è oggi considerata la più potente, ricca e ramificata organizzazione mafiosa a livello mondiale. Se Cosa nostra palermitana deve il suo salto di qualità alla prima metà del secolo scorso grazie allo sbarco in Nord America, i clan calabresi sono ormai presenti ovunque: dall’Australia al Canada, passando per Brasile, Venezuela, Argentina, Est Europa e Russia. Un’espansione avviata con i soldi dei rapimenti negli anni Settanta e Ottanta e oggi rafforzata dall’egemonia mondiale della ‘ndrangheta nel traffico di cocaina. Ma oggi la ‘ndrangheta è più forte di Cosa nostra, la mafia che negli anni Ottanta e Novanta sfidò lo Stato ai suoi più alti livelli?
Certamente sì. Anche se i «siciliani» non sono scomparsi ma stanno sempre più mutuando dalle ‘ndrine la capacità di penetrare gli apparati dello Stato senza fare rumore, senza sparare e senza neppure il bisogno di mostrare muscoli o la faccia più violenta. La ‘ndrangheta ha da sempre preferito non sfidare le istituzioni ma riuscire ad inserirsi al proprio interno. Lo stesso è avvenuto per l’imprenditoria e la politica, ma anche (in alcuni casi) per magistratura e forze dell’ordine.
Questo approccio ha permesso a una mafia considerata per troppo tempo un’accozzaglia di famiglie rurali e pastori, di entrare nella stanza dei bottoni. Di far crescere, e ormai in modo sbalorditivo, il proprio «capitale sociale». La ‘ndrangheta non ha infettato il Nord come un virus maligno, ma ha trovato a Milano come a Genova, a Modena e Reggio Emilia come ad Aosta e Torino, le braccia spalancate di chi ha approfittato dei servigi dei boss arrivati spesso con il soggiorno obbligato: dal lavoro nero allo smaltimento di rifiuti, dai cantieri alle false fatture.
I soldi delle cosche sono oggi in ogni settore imprenditoriale: edilizia, ristorazione, finanza, gioco online, concessionarie e perfino nella sanità.
La ‘ndrangheta è arrivata al vertice delle mafie mondiali essenzialmente per tre fattori.
L’organizzazione, che a differenza di Cosa nostra non ha una vera commissione ma un «Crimine» che svolge soprattutto funzioni di collegamento. Mentre ogni ‘ndrina lavora (e si muove) in autonomia anche se all’interno di regole e confini comuni. Una sorta di franchising ante litteram.
Decisiva è stata poi la capacità di prendere l’egemonia del traffico di droga, impiantando i propri uomini nei Paesi di produzione della coca e stringendo alleanze — anche con il sistema dei matrimoni combinati — con gli eredi dei «boss dei cartelli». Stessi meccanismi arcaici, quindi, ma proiettati dall’altra parte del pianeta.
Infine la capacità della ‘ndrangheta è stata quella di cambiare pelle, passando dai 700 morti della seconda guerra di mafia (1985-91) alla strategia dell’inabissamento. In particolare dopo la strage di Duisburg — 6 morti nell’agosto 2007 — le ‘ndrine hanno scelto deliberatamente di abbandonare la fase più violenta e limitare in maniera chirurgica agguati e delitti. Il motivo? Esattamente l’opposto della strategia stragista di Totò Riina: lo Stato quando reagisce lo fa in maniera così dura e determinata da mettere in seria difficoltà l’organizzazione mafiosa. Per questo meglio non sfidarlo, riuscire a confondersi, evitare di apparire (come è invece nella realtà) il principale problema per la sicurezza di questo Paese. La ‘ndrangheta sa quando può sparare e quando è meglio non farlo. Per evitare di attirare l’attenzione dello Stato e anche per non allarmare i cittadini che più dalle cosche devono essere «distratti» da altre questioni. Operazione di marketing senza precedenti.
Ma c’è un altro, ultimo e forse decisivo fattore. È quello messo in luce dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e dallo studioso Antonio Nicaso nel loro ultimo libro «La rete degli invisibili». La ‘ndrangheta grazie all’incontro con la massoneria deviata ha trovato un volano relazionale che l’ha fatta entrare nei più alti apparati di questo Paese. Una rete segreta di insospettabili — magistrati, giornalisti, politici, imprenditori, ufficiali delle forze dell’ordine — capace di condizionare ogni cosa. Uno scenario che sembra uscito da un film di fantascienza per chi considera la ‘ndrangheta come un mafia di pastori, riti e «mangiate» di capretto in Aspromonte. Ma che è la più impressionante realtà uscita dalle ultime inchieste giudiziarie. Cesare Giuzzi, Corriere.it