L’Umbria è stata scelta da una delle cosche di ’ndrangheta più forti del crotonese, i Giglio di Strongoli, come terra di conquista. In un fil rouge che la connette al Veneto – dove è ristretto il boss Salvatore Giglio – e alla Germania, dove la cosca Farao che governa sui Giglio ha costruito il proprio impero criminale.
Un anno dopo l’operazione antimafia della Procura di Catanzaro, denominata “Stige”, due dei giovani Farao – Giuseppe e Vincenzo – sono stati scarcerati per “mancanza di autonoma valutazione del gip”, mentre le teste del sodalizio rimangono in carcere.
L’indagine ha svelato come i due boss delle rispettive ‘ndrine, Giuseppe Farao e Salvatore Giglio, pur da dietro le sbarre continuassero ad occuparsi delle questioni di “famiglia”. A Padova incontrano i parenti, discutono di dissidi tra clan e di appalti da ottenere. La sala colloqui del carcere non fa pensare a un rigido spazio frequentato da detenuti condannati per associazione mafiosa, sembra più un salotto. Farao si preoccupa delle lamentele di Giglio che in cella ama scrivere poesie, ma fuori rivendica libertà d’azione e il diritto, secondo le logiche criminali, di accaparrarsi l’affare per la realizzazione di una scuola nella sua Strongoli.
Dal paesino crotonese affacciato sul mar Ionio la cosca Giglio ha imparato in fretta a replicare il modello di business dei Farao, tanto da espandersi imprenditorialmente dall’Umbria alla Renania Settentrionale, in Germania.
Il meccanismo è sempre lo stesso: uomini di fiducia per gestire le imprese pulite, con tanto di certificazioni antimafia sbandierate nelle conversazioni intercettate: “se ti servono… noi le abbiamo tutte”
Si dedicano alla fornitura di mezzi d’opera per i lavori autostradali e alla realizzazione di complessi residenziali: villette a Perugia e altre quaranta da costruire in Germania con al soldo ingegneri ed architetti che parlano il tedesco. A reggere la cosca Giglio è il figlio di Salvatore, Vincenzo. Vive a Perugia e mira ad espandersi verso nord, ma deve sottostare alle indicazioni che arrivano da Cirò. A imporle sarebbe Giuseppe Spagnolo, alias “Peppe u banditu”, rappresentante del locale di ’ndrangheta in Umbria.
Gli inquirenti ne tratteggiano un profilo sfaccettato: fa cartello con la ’ndrina degli Zingari per l’acquisto di ingenti partite di droga, gestisce l’imposizione dell’offerta di pescato di Cariati e Cirò e poi controlla anche il lavoro delle imprese che monopolizzano la raccolta di plastica e cartone nel crotonese. Nel frattempo fa la spola tra Calabria e Umbria per dirigere l’espansione imprenditoriale e riscuotere i guadagni.
La cosca Giglio, come una azienda controllata, risponde quindi al disegno della ’ndrina Farao che imposta azioni e strategie di business. Si investe nell’immobiliare, nella ristorazione, insomma si conquista un territorio, non per caso, ma perché dall’alto arrivano i comandi. E sul terreno si muovono le pedine.
Per la Procura di Catanzaro una di queste è Cataldo Malena, detto “il grosso”. A Cirò lo conoscono bene. Su disposizione dei Giglio, avvicina imprenditori e titolari di lavori privati e pubblici nell’area di Strongoli per fare estorsioni e ha anche il compito di avvisare circa la presenza di forze dell’ordine. Come foto del profilo WhatsApp un crocefisso e una SIG Sauer modello P238 con il monito: “Se di me non sai, non parlare”.
In Umbria gestisce un agriturismo nella zona del Lago Trasimeno. Ogni mattina entra a fatica, girandosi sul lato. La porta è troppo stretta per lui. Procede con affanno, si siede a tavola e impartisce ordini. E’ metodico. Da lì Dino – come si fa chiamare dai dipendenti – passa ore seduto al telefono. A volte fino alle due del mattino, anche quando nei weekend i clienti si esibiscono al karaoke in un ricco repertorio neomelodico. Non si dedica solo al ristorante, ha anche due aziende edili, una a Roma e una a Olbia.
In Umbria si muove come un fantasma, ma dietro di sé avrebbe lasciato una scia di ingiustizia. Sono oltre venti i dipendenti che lo hanno denunciato all’Ispettorato del lavoro.
“Avevamo un regolare contratto a tempo indeterminato, ma di fatto abbiamo lavorato i due mesi clou dell’estate senza essere pagati”, racconta una giovane coppia della zona. “Ci aveva detto di andare a prendere una parte dei soldi mercoledì, martedì è stato arrestato.”
La ristorazione è uno dei capisaldi dell’investimento cirotano nel cuore verde d’Italia.
Quasi cinque anni fa, nell’ambito di un’inchiesta volta a contrastare la presenza della ’ndrangheta nella regione, il tribunale aveva messo i sigilli a una pizzeria nel centro storico di Perugia gestita dai figli di Antonio Crugliano detto “capo ‘e cardillo”, all’epoca sorvegliato speciale. Il sospetto era che i Farao junior la utilizzassero per le loro riunioni, ma l’accusa venne meno al Riesame. Del resto i difensori dei Crugliano dichiararono: “I Farao avevano a che fare con i fratelli solo per il fatto che i due gestivano la sala e il servizio ai tavoli”.
Su Facebook le foto dei due fratelli Crugliano abbracciati al giovane Vittorio Farao che commenta: “Si mangia a Perugia con il mio amico”, in un “grande locale”. E’ lì che i Farao incontrano anche lo zio dei due fratelli, Leonardo. All’attivo precedenti per mafia, viene accusato dai pm di Catanzaro di essere una pedina fondamentale nella scacchiera dei Farao. Avrebbe controllato la flotta peschereccia e la gestione del pescato del porto di Cirò, “largamente favorito dalla debolezza amministrativa’ del Comune”.
Per la Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, Leonardo Crugliano influenzava anche le attività turistiche: se arrivava uno yacht era pronto a far spostare le barche più piccole per fare spazio. Perché a casa dei Farao l’ospitalità è tutto.
Ospitalità garantita anche a Perugia, la “metà strada” scelta prima di proseguire per Padova, dove ad attendere le giovani promesse del clan c’era il boss ergastolano Giuseppe Farao.
Lì, nel carcere-salotto si prendevano gli ordini da portare alla “colonia” in terra tedesca. Un impero gestito a wurstel e Sagrantino. Umbria e Germania due realtà speculari, luoghi dove la mafia che non spara, “non esiste”.
Un sistema criminale portato alla luce dall’indagine dei magistrati Vincenzo Luberto e Domenico Guarascio, coordinati dal procuratore capo Nicola Gratteri di Catanzaro. Il processo con rito abbreviato è già iniziato per 100 imputati, mentre per altri 80 prima udienza, con rito ordinario, il 4 marzo 2019. Cecilia Anesi, Floriana Bulfon e Giulio Rubino di Irpi su Corriere dell’Umbria