Il racconto del primo pentito della criminalità organizzata africana nelle carte di un’inchiesta della Dda
«La mia esperienza è quella di un uomo che ha vissuto nelle tenebre». Si «confessa» il primo pentito della mafia nigeriana. Lo fa nella sua chiesa. E poi davanti agli inquirenti. Oscurità, violenza, sangue, droga, prostituzione, botte: questa la sua storia. La storia di un gruppo – un cult – quello dei Maphite, che altro non è che un’associazione mafiosa. Nata in Nigeria dalle associazioni studentesche. Poi, però, diventata qualcos’altro. Diventata sinonimo di sottomissione e terrore. E ora attiva sul territorio piemontese e in tutta l’Italia centro-settentrionale. «I Maphite sono un’associazione criminale che assume i caratteri della mafiosità. Un’associazione che vive di fama criminale e notorietà nella comunità di riferimento in grado di per sé di creare paura e suggestione». Li descrive così il gup Giorgia De Palma nelle motivazioni della sentenza che il 25 settembre 2020 ha condannato, in rito abbreviato, venti persone a centoquaranta anni di carcere. Con pene sino a dieci anni e dieci mesi. Tra i difensori, l’avvocato Manuel Perga. La struttura del cult Maphite viene messa nero su bianco. Con la sua «connotazione mafiosa, caratterizzata dall’esistenza di un forte legame associativo, di ruoli precisi e modalità violente, di azioni volte a favorire una condizione di assoggettamento e di omertà in grado di agevolare la commissione di svariati delitti, in particolare in materia di prostituzione, droga, traffico di esseri umani, truffe online».
Tutto questo orrore è emerso dall’inchiesta Atheneaum II, dalle indagini dalla squadra anti-tratta della sezione polizia municipale della Procura, coordinata dal commissario Roberto Brillante. E dagli accertamenti della Squadra mobile. Insieme, agenti della polizia locale e della polizia di Stato, hanno dichiarato guerra a quella mafia che in poco o nulla differenzia da quella nostrana. «I Maphite possono uccidere, agiscono come i mafiosi italiani. Sono potenti, soprattutto in Nigeria, dove possono contare sull’appoggio di esponenti apicali delle istituzioni» racconta l’uomo che ha deciso di collaborare. Parla di riti di affiliazione. Botte. Uno straccio infuocato da spegnere con le mani. Altre botte, se non si riesce a reggere il dolore delle fiamme che addentano la carne. Una bevanda di alcol, marijuana, pepe e cipolle. E poi si parla di codici e norme. Come una cassa comune formata dai nuovi affiliati e dai proventi delle attività delittuosa. O come un pusher che dice: «Se non mi presentavo alle riunioni, venivano, mi picchiavano, prendevano i miei soldi». Lui è anche finito in ospedale. Al San Giovanni Bosco. È – anche – questione di controllo del territorio. «La mia area, la mia città, la mia barrak (covo, luogo segreto)» sono tra i termini più utilizzati. «I soldati – scrive il giudice – hanno il compito di controllare il territorio e l’area sulla quale operano i membri del medesimo sodalizio da attacchi esterni, difendendone i confini». Si va armati alle riunioni, perché, in caso di attacco, bisogna difendersi. «Il fatto è che una volta entrati nei Maphite non si può uscirne. Si può smettere di farne parte solo con la morte». Ecco le sue tenebre. — Irene Famà, La Stampa