Claudio Roncaia e Massimo Scotti, accusati di truffa ai danni della Ue, escono dall’inchiesta Grimilde sulla cosca Grande Aracri
Claudio Roncaia e Massimo Scotti fuori dal processo Grimilde. Con una decisione inaspettata, maturata dopo due ore di camera di consiglio, il giudice Giovanni Ghini ha dichiarato l’incompetenza del tribunale reggiano a giudicare il titolare della Riso Roncaia di Castelbelforte e il socio, accusati di truffa ai danni dell’Unione Europea, nell’ambito dell’inchiesta della Dda che ha sgominato gli affari della cosca di ’ndrangheta Grande Aracri tra la Lombardia e l’Emilia. I due mantovani saranno quindi processati in via Poma, così come richiesto dai loro difensori, Gaetano Alaia per Scotti e Mauro Bresciani e Alessandro Bertoli per Roncaia. Esclusa l’aggravante mafiosa, le accuse di truffa non hanno ragione di essere valutate nel processo Grimilde, ma devono invece essere esaminate dal tribunale competente sul luogo dove sarebbero state commesse, cioè Mantova. Ghini, rovesciando il giudizio del gup Sandro Pecorella, che aveva firmato condanne per oltre due secoli per i 48 imputati che avevano scelto il rito abbreviato, ha così ordinato l’immediata trasmissione degli atti alla procura virgiliana. Il nodo del coinvolgimento di Roncaia e Scotti nell’inchiesta è il loro legame con Giuseppe Caruso, l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza, ed ex funzionario dell’ufficio dogane della stessa città emiliana, -già condannato a 20 anni nel rito abbreviato,- e con il fratello Albino, che ha incassato 12 anni e 10 mesi, considerati uomini di punta della cosca. A introdurre Roncaia e Scotti nel giro, lo stesso Salvatore Grande Aracri, conosciuto alla fiera Cibus di Parma.
«Io con Salvatore gli parlo chiaro, gli dico “Salvatò, noi non la dobbiamo affogare ’sta azienda, dobbiamo cercare di pigliare la minna e succhiare, o no?». A parlare è proprio Giuseppe Caruso e l’azienda è la Roncaia, che, così come avevano ricostruito gli inquirenti, si era rivolta a loro in un momento di difficoltà perché dopo aver vinto un bando con un finanziamento dell’Agea, che la impegnava a fornire migliaia di tonnellate di riso, non aveva ottemperato all’obbligo. Aveva quindi prodotto un atto falso che certificava la rottura di un compressore per chiedere una proroga: sarebbero stati i Caruso a trovare una società disponibile a redarre un falso verbale di intervento, che era poi stato inviato all’Agea. Così avevano ottenuto la proroga ed evitato di pagare la penale.
Per questo favore i Caruso avevano preteso tremila euro. «Posso dirti un cosa e te lo dico… qualsiasi uomo ha un costo… ogni uomo ha un prezzo… ogni uomo ha un prezzo». Da una telefonata registrata nel giugno 2015 dagli investigatori, tra Caruso e Claudio Roncaia, emerge come il primo attribuisse a sé e al proprio gruppo il merito della risoluzione di una problematica con la banca Unicredit («Hai visto come ci muoviamo») verso cui c’era un debito, sia della posizione dei Roncaia «divenuta favorevole all’interno di Unicredit – spiega il Gip – grazie all’intervento determinante di un soggetto di spessore, portato dai Caruso». Il clan , specializzato in “problem solving” si occupa anche di far abbassare la cresta a un balordo che dopo aver scoperto che l’ex suocero di uno dei Roncaia aveva vinto una grosa cifra al Superenalotto, tenta un’estorsione. L’imperativo categorico dei Caruso era uno: prosciugare l’azienda mantovana senza strozzarla: trasporti del riso quindi affidati ad un’azienda “amica” della cosca, e prezzi “molto convenienti” per i rifornimenti dei loro ristoranti. Per tutto questo nel rito abbreviato Roncaia e Scotti sono stati riconosciuti vittime di estorsione da parte della cosca, quindi parte lesa con diritto ad un risarcimento.
Ed è questo l’altro tasto su cui hanno fatto leva i difensori dei due imputati: «La presunta truffa, tutta da dimostrare, in ogni caso sarebbe da collegare alle estorsioni» ha sintetizzato Alaia. Ora la palla passa ai giudici mantovani. Rossella Canadè, La Gazzetta di Mantova