L’ex assessore regionale Roberto Rosso resta in carcere. Lo ha deciso ieri pomeriggio il Tribunale del Riesame a cui si era rivolto il suo legale (l’avvocato Giorgio Piazzese) chiedendo la revoca della misura cautelare in carcere e – in subordine – la concessione degli arresti domiciliari. Le motivazioni saranno depositate entro 45 giorni.
Rosso si avvia verso un processo con un’accusa pesantissima: voto di scambio politico mafioso. Avrebbe pagato 7900 euro – in due tranche – a uomini dei clan di Vibo Valentia stanziali a Carmagnola e Moncalieri per ottenere appoggio elettorale alle consultazioni regionali del maggio 2019. Soldi in cambio di voti. Tutto con la mediazione di due «faccendieri»: Enza Colavito (sua amica personale) e Carlo De Bellis, anche loro arrestati. Rischia da 10 a 15 anni di carcere in un eventuale giudizio ordinario.
Non si può certo interpretare la pronuncia dei giudici, ma si può dire che ha retto l’argomentazione dei pm Monica Abbatecola e Paolo Toso. E cioè che Rosso ha mentito nell’interrogatorio del 4 gennaio scorso sostenendo di non conoscere la caratura criminale dei due soggetti che rispondono al nome di Onofrio Garcea e Francesco Viterbo. E la bugia non è considerata sintomo di resipiscenza.
«Rispetto ma non condivido la decisione del Tribunale del Riesame – dice Piazzese -. Non sussiste alcuna esigenza cautelare perché non vi è agli atti alcun elemento che dimostri un collegamento né in allora né tantomeno oggi con la criminalità organizzata». I magistrati prima e i giudici del Riesame poi la pensano diversamente.
Leggendo alcuni passi dell’interrogatorio dell’ex onorevole (che si è dimesso da tutte le cariche in Regione) emerge la sua, personale, ricostruzione dei fatti che non ha convinto il Tribunale della Libertà. Alla domanda su come facesse a non sapere chi fosse Onofrio Garcea dopo aver sottoscritto un’interrogazione parlamentare in cui lo stesso boss veniva citato come uomo della ‘ndrangheta, ha risposto producendo centinaia di interpelli condivisi in quegli anni coi colleghi di maggioranza e opposizione: «Ero stato anche ripreso da Forza Italia (all’epoca il suo partito, successivamente è transitato in Fratelli D’Italia) perchè non mi adeguavo alla linea non giustizialista del partito. Ero una specie di mosca bianca e quell’interrogazione era stata presentata dal Pd». Ancora: «Enza Colavito mi disse che erano persone che potevano muovere dei voti e invece non mi hanno portato nulla».
Eppure – scrivono i pm – «Rosso non è certo il politico in erba che, sprovveduto, improvvisa la propria campagna elettorale affidandosi a chiunque gli si proponga. Vi è invece traccia sia del fatto che si sia affidato a costoro, soltanto in quanto in grado ai suoi occhi, per il loro potere mafioso, di condizionare il voto e procacciare un buon risultato elettorale».
La trattativa con gli intermediari dei due boss è durata diversi giorni. A un certo punto l’ex assessore non voleva pagare. Poco dopo però si è convinto a farlo. Perché? «Avevo capito che (De Bellis e Colavito ndr) parlavano troppo. Avevo paura che emergesse un’ipotesi di corruttela elettorale ed era impossibile riscontrare i voti del resoconto che mi fu consegnato. Ho pensato: prima la chiudo meglio è». — Giuseppe Ligato, La Stampa.it