La regola dice che per riconoscersi, gli ’ndranghestisti debbano scambiarsi la copiata: i nomi dei tre affiliati che hanno garantito il «battesimo». Una sorta di codice fiscale assegnato all’ingresso nell’onorata società. A Cosimo Vallelonga bastano poche parole in dialetto calabrese stretto per riconoscere «i due compari», Carmelo T. e Roberto B., che un altro storico affiliato alla ’ndrangheta lecchese, Angelo Sirianni (non indagato) gli porta in dote per far ripartire gli affari con i rifiuti metallici dopo lo stop imposto dal sequestro di un camion carico di rame radioattivo. Una sorta di «mutuo soccorso» della ’ndrangheta. «Dico solo una parola, poi non dico più niente: lui è un grandissimo compare, mi raccomando siamo tutti onesti», spiega Sirianni. Il vecchio boss Vallelonga è un po’ sulla difensiva, ma si scioglie quando i due «ospiti» si mettono a parlare di una conoscenza comune, un affiliato lecchese di basso livello, che ha combinato problemi. Uno «scemo» lo definiscono, uno caduto come un rametto: «U dicu eu, i ruvetti cadanu». Una risata del boss Vallelonga certifica che tutti stanno dalla stessa parte.
I ramoscelli nella simbologia della mafia calabrese sono i «picciotti», elementi sacrificabili nell’albero della ’ndrangheta. I due invitati sono tutt’altro che sprovveduti. Anzi, rappresentano una grossa azienda di metalli che potrebbe stringere affari con le ditte di Vallelonga interessate alle false fatture: «Noi trasformiamo la carta in contanti», dicono intercettati dai finanzieri del Gico del Nucleo di polizia economica e finanziaria. I «compari» si lamentano piuttosto del fatto che il settore dei rifiuti metallici in questo periodo sia funestato dagli arresti, quasi quotidiani. Perché sono molte le aziende a lavorare fuori dalle regole e gli imprenditori poco rispettosi delle normative.
Il business, però, può partire. «I soldi si fanno con la cocaina, le armi e la spazzatura», spiegano in una sorta di manifesto della ‘ndrangheta 2.0. Quella che sa cambiare faccia in base alle occasioni, facendo affari grazie a «promotori finanziari», ma anche mostrare il muso cattivo secondo necessità. Per questo c’è Paolo Valsecchi, l’uomo che si occupa del recupero crediti e dell’usura. È lui a tenere i rapporti con le vittime e a dedicarsi alle azioni sporche. «Gli ho sparato solo a un dito, ho sparato giù e c’era il piede», così racconta nel luglio del 2018 a Vallelonga l’operazione di intimidazione contro una presunta vittima di usura. Uno dei tanti imprenditori finiti nella «rete» del clan dopo aver avuto soldi in prestito. Il boss 72enne non si scompone, chiede piuttosto se il ferito sia andato a farsi medicare. Valsecchi però è sicuro che non ci saranno problemi perché un «testimone-confidente» glielo avrebbe subito riferito. E così è stato visto che gli investigatori non troveranno alcun ferito medicato negli ospedali della zona per un colpo d’arma da fuoco. Nelle 522 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Alessandra Clemente c’è la ricostruzione del ruolo di Vallelonga all’interno dei delicati equilibri della ‘ndrangheta: testa in Calabria e affari in Lombardia. Per questo il 72enne riceveva e inviava «ambasciate» al Sud e manteneva contatti con «esponenti di spicco», come Giorgio De Masi, detto «’u mungianisi», esponente della «Provincia», l’organo di direttivo della ’ndrangheta. Tra le vittime un imprenditore che ha un villaggio turistico alle Pescoluse in Salento. Gli interessi, per tutti, sono del 40% all’anno.
Un consulente aziendale che si era rivolto agli uomini di Vallelonga per rientrare dopo una perdita di 500 mila euro, alla fine decide di denunciare. Il debito è salito a quasi un milione. Poco prima, ad agosto 2017, era stato convocato in un capannone vicino a Merate. Vallelonga gli aveva puntato alla testa una pistola con silenziatore: «Mi disse che avevo tempo fino al 30 settembre per recuperare il denaro altrimenti mi avrebbe chiuso in un baule della macchina e fatto sparire». Il clan ha il grilletto facile: «Devo stare calmo — dice un giorno Valsecchi intercettato —, altrimenti va a finire che gli sparo veramente e becco 30 anni di galera…». Cesare Giuzzi, Corriere.it