Responsabile di un brutale omicidio nel 2008 in Canavese, Domenico Agresta era diventato collaboratore di giustizia: dalle sue dichiarazioni oggi è scattata l’operazione della procura di Torino con ramificazioni in Germania, Spagna e altre zone in Italia
Sbeffeggiato dai suoi ex compari della ‘ndrangheta che gli avevano affibbiato il soprannome di McDonald per via della possente stazza fisica, considerato prezioso e credibile collaboratore di giustizia dagli uffici giudiziari dell’antimafia con cui parla ininterrottamente dall’autunno del 2016. C’è Domenico Agresta, il baby padrino della ‘ndrangheta torinese, il più giovane collaboratore di giustizia della malavita calabrese dietro la maxinchiesta in corso da stamattina, 5 maggio, da parte della Dia a Volpiano (Torino), Calabria, Spagna e Germania che ha portato a una trentina di arresti e sequestri per milioni di euro.
Dice, Agresta, di aver cambiato vita dopo aver scoperto la scuola in carcere. I libri, la cultura, come riscatto dall’ancestrale mondo delle ‘ndrine e della sua stessa famiglia, enclave di potere criminale che ha governato per decenni insieme ai cugini Marando le rotte del narcotraffico internazionale.
Si era presentato al mondo della malavita calabrese 12 anni fa. Con un omicidio. Era il 16 ottobre del 2008. Borgiallo, piccolissimo comune del Canavese, fa da sfondo a una vera e propria esecuzione. Agresta spara un colpo secco alla nuca di Giuseppe Trapasso, 23 anni all’epoca, piastrellista di San Benigno. Prima lo attira in una trappola, poi lo uccide. Un complice brucia l’auto con il corpo dentro per cancellare le prove. Mentre il cadavere di Trapasso fuma ancora, Mc Donald torna a ballare, al night in cui si erano conosciuti: il Kiss One di Priacco. E beve champagne. Pensa di averla fatta franca, ma non è così. A quell’epoca i carabinieri hanno le “ambientali” sulle auto dei boss che verranno arrestati tre anni dopo nella maxioperazione Minotauro. È notte quando uno di loro parla di quell’omicidio. “Ti ricordi il giovanotto? Micu?”. E l’altro: “Sì, l’ha autorizzato Torino”. È la fine.
Lo arrestano a Roma, nel parcheggio interrato dell’ospedale San Camillo. Un parente aveva avuto un brutto incidente e lui ne aveva approfittato per cambiare aria dopo l’omicidio. Una notte del novembre 2016 chiede di parlare coi carabinieri di Torino e con il capo della Dda dell’epoca (oggi procuratore capo) Anna Maria Loreto. Riversa migliaia di pagine di dichiarazioni nelle mani degli investigatori. E non può che parlare della sua famiglia. Sua madre, Anna Marando è sorella di Pasquale considerato – fino alla morte avvenuta nel 2002 con la modalità della lupara bianca – il Pablo Escobar italiano. Suo padre Saverio Agresta è un nome eccellente nel panorama delle ‘ndrine al Nord. Suo zio, Antonio, 60 anni appena compiuti, è in carcere ed è considerato il vertice della ‘ndrangheta in Piemonte. Un pedigree di tutto rispetto che lo porta a srotolare il papiro del suo “locale” di appartenenza: Volpiano colpita anche oggi dagli arresti.
Dalle sue dichiarazioni sono già derivate numerose operazioni, tra tutte Cerbero, babele di accuse contro gli Agresta e le famiglie di Platì trapiantate nel Torinese per mafia e droga. Tanta droga. Giuseppe Legato, La Stampa