Cutrese ma residente a Curtatone, è stato ritenuto pericoloso dal Tribunale. L’esproprio è scattato dopo il ricorso bocciato. Da vittima a imputato: condannato a 2 anni ma senza l’aggravante mafiosa
Entrato nel processo Pesci come uno degli obiettivi taglieggiati, minacciati, ricattati, spolpati dalla gang di Antonio Rocca e compagni, per ordine del boss della ’ndrangheta cutrese Nicolino Grande Aracri, nel corso delle indagini da vittima era passato sul banco degli imputati. Condannato a 4 anni e mezzo in primo grado per favoreggiamento personale e falsa testimonianza con l’aggravante di mafia – condanna poi ridotta in appello a due anni per favoreggiamento personale, con l’eliminazione dell’aggravante mafiosa – ora è stato spogliato di tutto ciò che possedeva. E stavolta non dalla cosca, ma per ordine della magistratura.
All’imprenditore cutrese Giacomo Marchio, 45 anni, da anni residente a Curtatone, la Dia e i carabinieri hanno confiscato tutto il suo patrimonio, che ammonta a cinque milioni di euro.
Durante le indagini del processo Pesci svolte dai pubblici ministeri Claudia Moregola e Paolo Savio, della Dda di Brescia, e dai carabinieri del nucleo investigativo di via Chiassi era stata dimostrata la pericolosità sociale di Marchio, tra l’altro già condannato in via definitiva nel 2013 per fatti di usura, proprio per la sua contiguità alle cosche. Il Tribunale di Brescia, nel 2018, aveva emesso un decreto di sequestro e confisca dei beni dell’imprenditore, contro cui Marchio aveva presentato ricorso: forte della cancellazione dell’aggravante mafiosa della sentenza Pesci di secondo grado. Adesso la corte d’appello di Brescia ha rigettato il ricorso e si è quindi proceduto alla confisca di beni e rapporti finanziari.
L’odierna confisca ha riguardato, nello specifico, quote di società (l’immobiliare S.G.M.) e relativi compendi aziendali, 48 immobili in provincia di Mantova (22 appartamenti, un magazzino, 22 garage e tre terreni), 11 immobili in provincia di Crotone (sei appartamenti, tre fabbricati, un magazzino, e un garage), e altri 7 immobili (tre appartamenti, un magazzino e tre garage) di proprietà dell’imprenditore e dei familiari, oltre a un’auto e numerosi rapporti finanziari.
La corte d’appello ha riconosciuto una «pericolosità generica» per la condanna del 2013 sui fatti di usura, e una «pericolosità qualificata» per le vicende emerse nel corso dell’inchiesta Pesci.
La sua vicinanza al clan di Grande Aracri e agli affari della cosca è stata avallata dalle relazioni dei periti del tribunale, che hanno rilevato un’evidente sproporzione tra i redditi dichiarati da Giacomo Marchio, e il suo tenore di vita e soprattutto i suoi beni. Secondo i periti, un patrimonio che deriva da entrate non dichiarate, con ogni probabilità significa proventi di attività illecite, derivanti da affari della criminalità organizzata. Verifiche a cui Marchio non è riuscito a controbattere.
Una confisca, come hanno precisato il colonnello Carmelo Graci e il direttore della Dia di Brescia Salvatore Gueli, che se non può essere ancora considerata definitiva, con un possibile ricorso in Cassazione da parte dell’imprenditore, si appoggia su un quadro molto chiaro della figura dell’imprenditore. Rossella Canadè, La Gazzetta di Mantova