Un pentito: patto per uccidere l’educatore. I familiari: si faccia chiarezza
La richiesta sarà depositata nei prossimi giorni al capo della Direzione distrettuale antimafia Alessandra Dolci. L’obiettivo è quello di convincere i magistrati milanesi a riaprire le indagini sul delitto di Umberto Mormile, educatore del carcere di Opera ucciso in un agguato la mattina dell’11 aprile del ‘90.
Un assassinio che dopo 28 anni è ancora avvolto nel mistero. Non per quanto riguarda gli esecutori materiali — Antonio Schettini e Nino Cuzzola, entrambi rei confessi e condannati — ma per il contesto che emerse (e soprattutto per quanto non emerse) dalle indagini dell’epoca e da quelle successive. E che si intreccia con le indagini sulla Trattativa Stato-Mafia e con l’inchiesta sul cosiddetto «Protocollo Farfalla», ossia il patto tra l’amministrazione penitenziaria e il Sisde per effettuare colloqui investigativi in carcere senza informarne l’autorità giudiziaria. Ma anche alla luce delle dichiarazioni di un pentito, Vittorio Foschini, killer legato alle cosche calabresi, alcuni mesi fa davanti ai magistrati Giuseppe Lombardo (Reggio Calabria) e Franco Curcio (Dna).
Per il collaboratore, Mormile non venne ucciso — come invece riportato nella sentenza e sostenuto da Schettini — perché rifiutò 30 milioni di lire per redarre una relazione favorevole in vista di un permesso di libera uscita al boss ergastolano Domenico Papalia, ma piuttosto perché l’educatore («che non era un corrotto») aveva scoperto che Papalia aveva legami con agenti dei servizi segreti e che riceveva visite degli 007 in carcere. Foschini dice anche che i Servizi, informati dai Papalia, diedero il «nulla osta all’omicidio Mormile e si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stessi indicarono». Quella sigla era «Falange Armata», la misteriosa organizzazione emersa per la prima volta nel delitto Mormile e che poi accompagnò stragi mafiose e i delitti della Uno Bianca. Una vicenda, peraltro già emersa nelle stesse dichiarazioni di uno degli assassini, Nino Cuzzola, che confessando il delitto aveva parlato delle medesime ragioni che avevano spinto il fratello di Domenico, Antonio Papalia, allora ancora libero, a organizzare l’omicidio dell’educatore.
A 28 anni di distanza da quel delitto — due killer su una Honda 600 che spararono sei colpi contro l’Alfa di Mormile ferma a un semaforo a Carpiano — i familiari della vittima si sono rivolti all’avvocato Fabio Repici, già legale di parte civile al processo per l’assassinio del procuratore Bruno Caccia, che nei prossimi giorni presenterà un’istanza per chiedere nuove indagini sui reali mandanti del delitto. «Occorre indagare sul sistema carcerario, ma non solo. Se è vero che Domenico Papalia ha goduto a Parma prima e a Opera dopo, di una detenzione “di favore”, con la concessione di permessi grazie alla sua vicinanza con il Sisde, allora occorre ricordare che i permessi vengono concessi da magistrati, non solo in base al parere di un educatore o del direttore del penitenziario — ha spiegato il legale —. Le indagini sul delitto, avviate dalla Procura di Lodi, non riuscirono mai a penetrare la cappa di silenzio sollevato dall’amministrazione penitenziaria e da alcuni apparati istituzionali. Tant’è che al magistrato inquirente venne perfino negato l’accesso con un blitz nel carcere di Opera». Repici sostiene che un delitto come quello di Mormile non venne deciso solo dai Papalia ma che fu una concertazione comune della «federazione milanese delle mafie» che aveva sede all’Autoparco.
Alla fine, secondo Repici, le indagini lodigiane vennero quasi «sopite», dopo il trasferimento del magistrato Carlo Cardi. I killer vennero scoperti dai pm di Milano che indagavano sui clan calabresi dopo le confessioni dei pentiti.
Ma per Repici «ci sono gavi colpe della magistratura milanese» che non ebbe mai il coraggio di approfondire quello che negli ambienti della malavita e delle cosche molti sapevano: ossia che Domenico Papalia aveva rapporti con 007 del Sisde. «Ancora non si capisce a quale titolo», si chiede il fratello della vittima, Stefano Mormile, che in occasione dell’anniversario del delitto ha partecipato a un incontro nell’ambito del Festival dei beni confiscati insieme a David Gentili: «Dopo l’uccisone di mio fratello decine di agenti della penitenziaria ma anche detenuti eccellenti, vennero trasferiti misteriosamente. Ad Opera molti sapevano di quel delitto, ma nessuno mai volle indagare davvero i mandanti». Cesare GIuzzi, Corriere.it