In 61 pagine la Corte di Cassazione spiega come si muoveva l’organizzazione E c’è anche chi ritornerà alla sbarra: Marchio di nuovo davanti ai giudici
Una “gemma” a tutti gli effetti della potentissima associazione mafiosa di Nicolino Grande Aracri, il boss della ’ndrangheta cutrese, con Antonio Rocca, il muratore di Pietole, direttore e organizzatore della banda criminale nel Mantovano.
In 61 pagine la Corte di Cassazione spiega le motivazioni della sentenza con cui ha confermato, nella sostanza, le condanne inflitte a otto dei nove imputati nel processo d’Appello di Pesci del marzo dello scorso anno, e ha disposto un nuovo processo per Alfonso Bonaccio, annullando l’assoluzione.
Scacco matto per la Dda di Brescia che, grazie alle indagini dei carabinieri del nucleo investigativo di via Chiassi, è riuscita a portare alla sbarra per la prima volta al Nord e poi a far condannare Nicolino per associazione mafiosa. A Mantova la cosca ha corrotto il mercato edilizio ed economico sotto le direttive di Grande Aracri, “Manu di gomma”: stop ai dubbi e ai distinguo di questi anni, dettati da ottusa cecità o subdola connivenza. Tra Mantova e Cremona la cosca si era accaparrata ghiotti appalti attraverso le proprie società e estorceva denaro alle aziende con minacce e violenze. Oltre all’ovvio no al ricorso del boss, confermata la sentenza del luogotenente Rocca, che dovrà scontare 17 anni e 8 mesi, dimostrata, precisano i giudici, oltre che da numerose testimonianze, dai provati continui pellegrinaggi a Cutro avvenuti su convocazione del boss, per aggiornamenti, per risolvere problemi e per portare “imbasciate”.
No anche al ricorso della difesa di sua moglie Deanna Bignardi, condannata a 5 anni, 4 mesi e 20 giorni per concorso in detenzione di arma da fuoco e riciclaggio, «evidente la sua conoscenza delle attività del marito», e «l’inverosimiglianza delle sue affermazioni» del loro figlio Salvatore, (1 anno e 20 giorni). «Senza il placet di Nicolino Grande Aracri – osservano i giudici della Corte Suprema – a Mantova non si poteva lavorare» perché a Cutro «venivano individuati gli obiettivi estorsivi e le modalità della loro attuazione» e «vi erano anche i capi in grado di dirimere le controversie sorte all’interno del clan, fatta salva la necessità di rivolgersi al capoclan nei casi più complessi». Ineccepibile, sotto tutti i profili, quindi, la condanna del fabbro Giuseppe Loprete, “uomo di pace e verità” a 16 anni e 6 mesi.
Attendibili e circostanziate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che i difensori hanno cercato di screditare colpo su colpo, inequivocabili le intercettazioni ambientali, precise le testimonianze delle vittime delle estorsioni.
Accolto il ricorso della Procura contro la sentenza di assoluzione di Alfonso Bonaccio, per cui l’Appello aveva annullato la condanna a 10 anni per associazione mafiosa incassata nel primo grado. La definizione “cane sciolto” da cui i giudici dell’Appello avevano dedotto la sua estraneità al clan mafioso, non va estrapolata dal seguito del discorso, in cui il collaboratore di giustizia aggiunge che «inizialmente lavorava da solo, poi ha cominciato a lavorare con il clan». E «poi si era aggregato, tipo che ci faceva avere delle armi»
Il puledro del boss tornerà quindi alla sbarra davanti ad un’altra sezione della Corte d’Appello di Brescia.
Torna alla sbarra Giacomo Marchio, l’imprenditore scivolato nel corso del processo dal ruolo di vittima delle estorsioni a quello di imputato, poi condannato a 2 anni di reclusione. Nei primi interrogatori aveva negato di aver subito pressioni e minacce dalla cosca. La Cassazione ritiene errata l’esclusione dell’aggravante mafiosa, siglata dalla sentenza d’Appello. Della sua «pericolosità sociale» e dei suoi legami con la cosca, è sempre stata convinta la Dda di Brescia, che gli ha confiscato un patrimonio di 5 milioni di euro.
La Cassazione, infine, apre uno spiraglio per Danilo e Ennio Silipo, annullando la condanna a 3 anni per estorsione aggravata dal metodo mafioso: l’estorsione resta, ma il nuovo processo dovrà valutare l’esistenza dell’aggravante. — Rossella Canadè, La Gazzetta di Mantova,