L’azienda aveva ricevuto un’interdittiva anche per la presenza di condannati per reati associativi. Accolto il ricorso al Tribunale, “i precedenti non bastano per la giusta causa”. Riavrà quindici mensilità
Era stato licenziato da un’azienda di Legnano che, anche a causa della presenza fra il personale “di più soggetti pregiudicati per reati associativi”, era stata colpita da un’interdittiva della Prefettura di Milano. Ma l’operaio, nel 2005 condannato a 2 anni di carcere a Caltanissetta per associazione di stampo mafioso, ha fatto causa alla ditta e il Tribunale del lavoro di Busto Arsizio gli ha dato ragione.
Il giudice ha dichiarato “illegittimo” il licenziamento e, pur non reintegrandolo, ha condannato l’impresa al “pagamento in suo favore di un’indennità risarcitoria determinata in 15 mensilità, oltre alla somma lorda di 711,50 euro” per il mancato preavviso. L’azienda, inoltre, dovrà versare duemila euro di spese legali.
La vicenda ha il suo prologo nell’interdittiva che il 25 novembre 2019 colpì l’azienda metalmeccanica, con una cinquantina di dipendenti. Misura emessa, emerge dagli atti, per “la presenza di tre dipendenti con precedenti penali per reati associativi, soggetti con i quali l’amministratore unico della società ha rapporti di parentela o di amicizia”. Poi “l’esistenza di rapporti di contiguità tra l’amministratore unico ed esponenti, anche di spicco, di consorterie criminali”. Accuse pesanti nei confronti della ditta, che ha impugnato il provvedimento (il Tar ha respinto la domanda cautelare).
Nel frattempo, l’impresa nel gennaio 2020 ha licenziato per “danno d’immagine” i tre dipendenti considerati legati ai clan di Cosa Nostra della zona di Gela, “ripulendo“ l’organico. Uno di loro, tubista, ha fatto ricorso. E, assistito dall’avvocato Emanuele Zanarello, ha vinto in primo grado. Il giudice evidenzia, nella sua ordinanza, che non si giustifica “il licenziamento automatico del lavoratore con precedenti penali per reati perpetrati diversi anni addietro di cui il datore di lavoro era presumibilmente a conoscenza al momento dell’assunzione”. Il licenziamento “risulta riconducibile non ad un illecito disciplinare ma ad un fatto oggettivo”, cioè l’interdittiva con al centro proprio il rischio di infiltrazioni mafiose dovute non solo alla presenza di dipendenti pregiudicati. Manca però un “giustificato motivo oggettivo” del licenziamento: l’interdittiva non è sufficiente. Considerazioni che hanno portato alla condanna dell’azienda, rappresentata dagli avvocati Albè e Gianduia, a pagare le 15 mensilità pur dichiarando “risolto il rapporto di lavoro”. Ma la battaglia non è finita, perché il tubista condannato per mafia ha intenzione di fare ricorso in appello per il reintegro. Andrea Gianni, Il Giorno