Milano, anno 1990, 105 omicidi e molteplici eventi delittuosi divennero pensieri esclusivi dei locali inquirenti, convinti che nella capitale economica del nord qualcosa stesse totalmente sfuggendo al loro controllo.
Milano come Gela, centro siciliano nel quale, durante il medesimo periodo storico, stidda e cosa nostra si contendevano l’egemonia finale; le affinità, però, non si limitavano a fattori meramente casuali: i gruppi criminali gelesi erano riusciti, a conclusione di un lento e complesso iter di “integrazione”, ad esportare le metodologie tipiche del loro operare non solo entro il perimetro urbano del capoluogo lombardo ma anche di quello dei centri limitrofi.
I “colonizzatori” gelesi furono guidati, nel tentativo di far propri spazi in origine impensabili, dai fondatori di due essenziali gruppi dell’insieme rappresentato da cosa nostra a Gela: Giuseppe Madonia e Antonio Rinzivillo. Il collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, sentito in quegli stessi mesi dai magistrati impegnati in diverse inchieste, giunse ad affermare che in Lombardia cosa nostra poteva disporre “di ventimila affiliati”.
Oggi il pubblico ministero della Procura milanese, Marcello Musso, chiede al giudice dell’udienza preliminare il rinvio a giudizio per alcuni dei nomi storici della malavita organizzata gelese, i quali, coordinandosi con aderenti ad altri mandamenti isolani, avrebbero pianificato ed eseguito omicidi di stampo “siciliano” tra le strade della laboriosa Milano e dei centri del cosiddetto hinterland. Quando a Gela il duplice omicidio di Orazio Coccomini e Salvatore Lauretta, componenti del gruppo costituito da Salvatore Iocolano, doveva ancora essere dettagliatamente definito, dando il drammatico via alla scontro tra i due gruppi rivali: a Liscate, parte dell’estesa provincia milanese, agli inizi di una calda estate del 1987, Gaetano Carollo, affiliato alla famiglia palermitana di Resuttana, assai attivo nel settore del traffico di stupefacenti, veniva ucciso innanzi al tranquillo complesso abitativo de “I Girasoli”, secondo l’accusa, da un commando composto da Cataldo Terminio e Antonio Rinzivillo, inviati da Giuseppe Madonia con la finalità di esaudire le richieste fatte recapitare da Salvatore Riina e Francesco Madonia.
Cinque mesi più tardi le pretese esternate da Giuseppe Madonia ebbero quale obiettivo Vincenzo Di Benedetto, reso cadavere nella zona ricompresa tra piazzale Cuoco e l’Ortomercato, strategica per gli interessi economici perseguiti dai gelesi in trasferta: l’operazione venne condotta, in quest’occasione, da Pietro Giuseppe Flamia e Maurizio Morreale, quest’ultimo divenuto vittima dei suoi stessi alleati nel 1995.
Tra le esecuzioni più eclatanti va certamente annoverata quella di Cristoforo Verderame, sorvegliato speciale, esperto nella commissione di reati di basso cabotaggio, soprattutto rapine e furti, caduto per mano mafiosa nell’Ottobre del 1988, e finito con un colpo alla testa nei pressi dell’istituto d’istruzione primaria e secondaria, “Enrico Fermi” di Borgolombardo: allo scopo di impedire un suo eccessivo sconfinamento tra i più sensibili business condotti dal clan Madonia nel milanese; come nei precedenti già citati, almeno stando alla tesi assunta dalla procura, l’ordine sarebbe stato pronunciato da Giuseppe Madonia e realizzato da Maurizio Morreale, Giovanni Pietro Flamia ed Alessandro Barberi.
Nel Maggio del 1989, invece, Milano fece da sfondo al tentativo di omicidio di un ex adepto del clan retto dal boss di Vallelunga Pratameno: si trattava di Carmelo Scerra, ritenuto oramai inaffidabile dagli altri membri, e gravemente ferito nel corso di una spedizione realizzata da uno dei killer più freddi di cosa nostra gelese, Giovanni Passaro, sostenuto da Carmelo Tosto, tra le principali spalle al nord dello stesso reggente; per Scerra furono fatali i giorni successivi, durante i quali non riuscì a superare i danni riportati.
Le ritorsioni interne, però, non cessarono, mietendo una nuova vittima, Carmelo Tosto, a sua volta affidabile gregario dell’egemone Madonia, perlomeno fino al 2 Ottobre del 1990 quando venne centrato dai colpi esplosi, secondo quanto sostenuto dal pm Marcello Musso, da Roberto Salerno coadiuvato da Emanuele Argenti.
Alleanze strategiche tra mandamenti diversi, tra queste quella generata dalle brame manifestate dalla famiglia Madonia, supportata, però, dal gruppo dei corleonesi e da quello riconducibile a Nitto Santapaola di Catania: finalizzate ad un unico scopo, apporre una stretta morsa su taluni territori in origine estranei a qualsiasi manifestazione di violenza mafiosa.
Qualora la richiesta sostenuta dal pubblico ministero Musso dovesse essere accolta dal giudice dell’udienza preliminare, Giovanna Verga, il tanto biasimato, almeno da taluni, “teorema” della mafia in Lombardia, muterebbe definitivamente, trasformandosi in verità giudiziaria. Rosario Cauchi, Corriere di Gela