La fine di Francesco Sforza, atteso a processo il 9 febbraio
Di lui si sa che lo chiamavano Dobermann. Che lo avevano arrestato il mattino del 28 gennaio scorso in Spagna, ad Alicante dopo più di un anno di latitanza. Che ha mangiato, per l’ultima volta, alle 13,30 dello stesso giorno e due ore dopo la Guardia Civil lo ha trovato morto, per terra. Steso sul pavimento di una cella di sicurezza nei sotterranei della caserma di Benidorm, Alicante.
C’è un’inchiesta delle procure spagnole in collegamento con quelle italiane, ma la notizia della morte di Francesco Sforza 40 anni, torinese, narcos desaparecido legato mani e piedi alla ‘ndrangheta calabrese ha interessato molto i carabinieri di Torino. Che lo avevano «incastrato» nell’indagine «Cerbero», babele di accuse contro le ‘ndrine di Volpiano e i grandi broker di cocaina Nicola a Patrick Assisi e che per mesi hanno cercato di prenderlo mentre lui, primula rossa, si nascondeva facendo la spola tra Valencia, Lloret de Mar e Girona.
Una morte che è un giallo.
Perché Sforza si sarebbe dovuto presentare a processo tra tre giorni per essere giudicato dal Tribunale di Torino. L’accusa: riforniva di droga (hashish e marijuana) i cartelli di Volpiano e San Giusto Canavese. Un calibro medio-alto del canale spagnolo a sua volta alimentato dal Nord Africa, non un improvvisato. L’ambientale piazzata dai carabinieri in un alloggio di Torino aveva registrato i colonnelli della famiglia Agresta mentre riempivano le auto di soldi da spedirgli per i pagamenti. Un grossista, ma anche un intermediario secondo il pm Paolo Toso titolare dell’inchiesta. In una sola spedizione gli erano stati recapitati 272 mila euro in contanti per pagare i fornitori dei carichi.
Era tra i pochissimi ad aver scelto il rito ordinario, il dibattimento, mentre era saltato all’occhio di osservatori attenti come tutti i suoi referenti – 78 su 82 – avessero scelto il rito abbreviato: cioè un processo solo sulle carte, a porte chiuse, senza testimoni. Lui no, voleva difendersi in aula dalle accuse. Non semplice visti i numerosi riscontri investigativi.
Di certo avrebbe presupposto un confronto con la Corte, un contraddittorio più completo. In un trafiletto dei giornali locali iberici si parla di arresto cardiocircolatorio ma vai a capire quando un giovane muore cosi, di colpo, a tre giorni dal processo in cui rischiava fino a 20 anni di carcere e avrebbe dovuto spiegare da quando, quanto e come riforniva gli emissari della potente famiglia mafiosa degli Agresta, se questa storia è tutta qui, in un malore improvviso. Le autorità spagnole hanno disposto l’autopsia, il suo legale Marianna Ivanov vuole risposte: «Nessuno mi ha comunicato dell’avvenuto arresto, solo della morte» avrebbe detto in sintesi ai media spagnoli. Sforza era stato arrestato già mesi fa ma per un errore dei giudici spagnoli era stato scarcerato in attesa di essere imbarcato per l’Italia: «Tra 10 giorni si presenti all’aeroporto» gli avevano intimato. Ma allo scalo di Madrid, Dobermann non si è mai visto. — Giuseppe Legato, La Stampa