Financial Times. Il lato social dei boss: così le mafie diffondono il loro messaggio
A un osservatore casuale sarà sembrata solo una delle tante pagine Facebook che dispensava aforismi motivazionali (insieme a qualche occasionale minaccia). Invece “Onore è dignità”, 18 mila “mi piace”, era un vero e proprio esercizio di “social media branding” realizzato da un mafioso italiano.
Per cinque anni, prima di finire in carcere nel 2017 con una condanna a 30 anni, il capo ‘ndranghetista Vincenzo Torcasio, di Lamezia Terme, si è meticolosamente costruito un consistente seguito online, attraverso un improbabile mix di immagini kitsch di rose e di cuori, citazioni dello scrittore Paulo Coelho e occasionali perle di saggezza gangster.
In alcuni post se la prendeva con le regole carcerarie dello Stato italiano contro la mafia. In altri pubblicava immagini di grandi somme di denaro scrivendo “quando ci sono di mezzo questi non ci si può fidare di nessuno”.
Per gli esperti di mafia, il tentativo di Torcasio di diventare un influencer è la prova di una svolta social operata da alcuni boss italiani dopo anni in cui generalmente la regola è stata mantenere un profilo basso per non suscitare le attenzioni delle autorità.
“La mafia ha sempre fatto attività di branding per il suo marchio”, ci dice Federico Varese, esperto di criminalità organizzata e professore all’Università di Oxford. “Adesso è cambiato il mezzo, ma gli obiettivi sono gli stessi”.
“Le organizzazioni criminali potenti tendono a ridurre le occasioni di ricorso alla violenza. Se tu sai che sono un mafioso e prendi in prestito dei soldi da me sai già che non ti conviene fare scherzi. La reputazione aiuta a evitare la violenza, che in genere attira l’attenzione. Perciò costruire questa reputazione è un investimento molto razionale”.
Nell’era pre-digitale si può trovare una lunga lista di criminali che hanno provato a usare i media per costruirsi una fama. Il boss newyorchese John Gotti, chiamato “Dapper don” per il modo di vestire troppo elegante, negli anni Ottanta corteggiava la pubblicità e cercava l’attenzione della stampa. Ma se, da un lato, la costruzione di una reputazione di alto profilo può essere un bene per gli affari, dall’altro presenta numerose insidie.
“Non è una buona strategia diventare troppo famosi”, continua Varese. “Se diventi una celebrità attiri l’attenzione della polizia. E Gotti ha finito per trasformare se stesso in un bersaglio”.
La pagina Facebook “Onore è Dignità” giace inattiva dal 2017 ma è ancora online. Non contiene alcuna forma di promozione diretta dell’attività criminale. Molti post si concentrano invece sul rischio di tradimento da parte di chi vi è vicino, sulla necessità di mantenere il “sangue freddo”, e altri messaggi omaggiano noti boss della criminalità organizzata italiana del passato, come il camorrista Raffaele Cutolo.
Anna Sergi, criminologa all’Università britannica dell’Essex, conferma che i mafiosi e le loro famiglie usano i social per promuovere e difendere quelli che ritengono valori culturali di cui andare fieri.
“L’identità mafiosa non coincide sempre con le attività dell’organizzazione. Chi fa parte di un clan spesso interpreta questa appartenenza come uno stile di vita, un modo di essere che ha lati positivi. Per loro è naturale, dal punto di vista criminologico, difendere la propria identità e i propri valori nel momento in cui vengono attaccati dallo Stato”.
Nelle sue incursioni sui social è capitato che la mafia italiana incrociasse le sottoculture giovanile proveniente dall’estero. Un esempio è il videoclip trap (genere musicale derivato dell’hip hop e nato ad Atlanta) pubblicato l’anno scorso su Youtube da un gruppo di adolescenti, alcuni dei quali legati alle affermate famiglie criminali di ‘Ndrangheta.
Il gruppo si fa chiamare Glock 21 e il video, che ha ottenuto 267 mila visualizzazioni, è girato a Rosarno tra giovani in posa con armi automatiche, gioielli vistosi e auto sportive. Non contiene alcun segno evidente che i protagonisti siano effettivamente mafiosi.
Secondo il professor Varese, questi video dimostrano che gli appartenenti alle famiglie mafiose sono influenzati dalle stesse culture giovanili digitali che vanno di moda tra i loro coetanei, e usano i social proprio come loro: “Sono persone come noi, vivono nel nostro stesso mondo. Fanno parte della stessa cultura in cui viviamo noi e il più delle volte rivelano sui social solo informazioni personali, che non possono essere usate per accusarli in tribunale”.
Come per tutti gli utenti dei social, tuttavia, esiste anche per loro il rischio che un post sconsiderato finisca per tormentarli per il resto della vita. “Una volta che inizi a usare i social, i social possono essere usati contro di te”, riassume Varese. “È come quando ti penti a 30 anni di aver pubblicato una certa foto della tua festa di 18 anni”.
È un rischio che Torcasio sembrava conoscere, visto che avvisava così i suoi follower: “Se il passato torna a trovarti, cerca di evitarlo”. In un altro aforisma scriveva invece che “Non c’è spazio per chi ti ha voltato le spalle”. di Miles Johnson, ilfattoquotidiano.it