L’avvocato Rosario Di Legami, amministratore giudiziario di importanti beni confiscati alle mafie, dal nord al sud dell’Italia, è tornato a Reggio Emilia. C’era stato per la prima volta, in un’aula di tribunale, giovedì 30 marzo 2017, quando aveva proiettato alcune diapositive nel bunker prefabbricato del processo Aemilia, oggi ormai quasi completamente smantellato.
Quelle istantanee erano un pugno nello stomaco. Trasmettevano la drammatica realtà dello scempio ambientale compiuto nella pianura modenese all’indomani del terremoto del 2012. Scempio dovuto non alla forza della natura, ma alla responsabilità dell’uomo. Una foto dall’alto scattata nel 2014 mostrava la frazione di San Biagio, nel comune di San Felice sul Panaro, con una miriade di puntini bianchi sparsi nel grande campo sportivo delimitato dalla chiesa, dal cimitero, dall’asilo e dalla sagrestia. Quei puntini erano Big Bags, grandi sacchi al cui interno si trovavano detriti dei crolli provocati dal terremoto e cemento amianto. Le condizioni di questi sacchi si vedevano in una seconda foto: protezione deteriorata, grossi buchi che favorivano la dispersione di materiale nocivo nell’ambiente. Erano lì, all’aria aperta, a pochi metri dalla vita di tutti i giorni, e ci sono rimasti per tre anni. La responsabilità di quello smaltimento era della Bianchini Costruzioni srl, i cui titolari sono finiti a processo in Aemilia. Nell’area della sede societaria era stoccato un altro enorme quantitativo di materiale potenzialmente nocivo che Di Legami riuscì a mettere sotto protezione con una grande copertura d’emergenza. Nel Decreto del 21 dicembre 2015 firmato dal giudice Francesca Zavaglia, che disponeva il giudizio per 149 imputati nel rito ordinario di Aemilia, si può leggere che presso la sede della Bianchini Costruzioni erano depositate “7.500 tonnellate di fibrocemento frantumato e 200.000 tonnellate di rimanenti rifiuti, ben oltre il limite di stoccaggio massimo garantito”.
Il ritorno a Reggio Emilia di Rosario Di Legami avviene per un’altra deposizione in un altro processo alla ‘ndrangheta, Grimilde, che approda nell’aula della Corte d’Assise per il rito ordinario, dopo la conclusione dell’abbreviato di Bologna. L’amministratore giudiziario è subentrato dal 2015 nella gestione di beni oggetto di sequestri preventivi compiuti in esecuzione di provvedimenti chiesti dalla Direzione Antimafia e firmati dal presidente del tribunale reggiano Francesco Maria Caruso. Si trattava di appartamenti, conti correnti, veicoli e società appartenenti a Francesco Grande Aracri, fratello di Nicolino residente a Brescello, o intestati a membri della sua famiglia. Per un valore complessivo superiore ai tre milioni di euro. Ricorda Di Legami in aula che si trattò di una delle prime aggressioni patrimoniali alla ‘ndrangheta nel nord Italia e la prima assoluta in Emilia Romagna. Un provvedimento deciso sulla base del rischio concreto che Francesco, già condannato per mafia nel processo Edilpiovra, cercasse di “disperdere, sottrarre od alienare” i beni frutto di attività illecite attraverso intestazioni fittizie.
L’importanza del tema è sottolineato dal giudice Sandro Pecorella nelle motivazioni della sentenza del rito abbreviato di Grimilde, pronunciata il 26 ottobre scorso: “Lo strumento della prevenzione patrimoniale è una misura particolarmente temuta dalle associazioni mafiose dato che toglie l’ossigeno finanziario necessario alla sua stessa esistenza… specie per una associazione a carattere prevalentemente imprenditoriale com’è il sodalizio ‘ndranghetistico emiliano. Molta parte delle energie dei sodali è catturata dunque dalla necessità di trovare fittizi intestatari affidabili”. Si parte dai famigliari, aggiunge Pecorella, per arrivare poi a “soggetti che abbiamo un aspetto più pulito dei parenti prossimi”.
La storia trattata da Rosario Di Legami nella sua deposizione in aula, il 10 maggio 2021, riguarda la Eurogrande Costruzioni srl, costituita nel 2001 da Francesco Grande Aracri (60% di quote), ora imputato in Grimilde, e dal figlio Salvatore (40%), già condannato a 20 anni di reclusione nel rito abbreviato. Nel 2004, pochi giorni dopo la sentenza di Edilpiovra, Francesco cedeva le sue quote societarie alla figlia Rosita e quattro anni dopo Salvatore cedeva il suo pacchetto al fratello Paolo che nel 2013 passava a sua volta quel 40% alla stessa Rosita.
La storia che coinvolge la società Eurogrande srl, documentata dalle attività investigative e riassunta in aula dall’amministratore Di Legami, è emblematica del modo di operare della cosca, del potere dei suoi vertici, della capacità di ottenere denaro e generare utili anche attraverso i fallimenti.
La società partecipò per una piccola parte al cosiddetto affare Sorbolo: un enorme illecito costruttivo di 130 unità abitative nel comune del parmense affacciato sul fiume Enza. Appartamenti e garage, oltre a sette ettari di terreni, per un valore di decine e decine di milioni di euro, acquistati e costruiti attraverso il reimpiego di soldi sporchi e con il consueto contorno di truffe, fatture false, minacce, società di comodo e finanziamenti facili del sistema bancario. Altri appartamenti, una ventina, gestiti con le stesse società, dovevano sorgere in via Aurelia a Reggiolo, in provincia di Reggio Emilia, attraverso la ristrutturazione di fabbricati in precedenza agricoli. Racconta nel processo Aemilia il collaboratore di giustizia Giuseppe Giglio, uno degli artefici dell’affare, che la società Pilotta srl appaltò alla Eurogrande la costruzione di questi appartamenti a Reggiolo, attraverso un contratto stipulato nel 2008 quando Francesco Grande Aracri era fuori dal carcere. Di Legami fornisce in aula i dettagli di quell’appalto, per un valore complessivo di circa 1,8 milioni di euro, pagati secondo gli accordi originari con 1,4 milioni di bonifici e contanti, e con due appartamenti del valore indicativo di 200mila euro ciascuno. La Pilotta aveva ottenuto da banca Carige, per la costruzione di questi immobili, un mutuo da saldare con rate trentennali per 2,3 milioni di euro. Un anno dopo quell’accordo la società dei Grande Aracri ottiene la cancellazione del compromesso di vendita relativo al secondo appartamento, per cui la Pilotta srl dovrà pagare in contanti altri 200mila euro alla Eurogrande. Lo fa senza battere ciglio, dice Di Legami, vista l’autorevolezza di Francesco Grande Aracri, sebbene il danno finanziario della operazione sia evidente.
Negli anni successivi, fino al 2010, c’è un ulteriore “rimpolpo economico”, così lo chiama Di Legami, di soldi che passano attraverso bonifici dalla Pilotta alla Eurogrande. Soldi che la Pilotta riceve da un’altra società, la Medea, che a sua volta li riceve da Giuseppe Giglio e dal collega in affari Francesco Falbo. A sua volta la Eurogrande Costruzioni, ricorda la sentenza Pecorella, cedeva il credito vantato nei confronti della Pilotta srl alla Banca Popolare di Novara, incassando la immediata liquidità del contratto.
La morale di questa storia è che la Pilotta fallisce dopo aver ceduto il proprio credito frutto del mutuo ad un’altra società coinvolta nell’affare Sorbolo, chiamata K1. L’intera Corte degli appartamenti di Reggiolo, dice Di Legami, è perlomeno incompleta per non dire abbandonata. I soldi dei mutui sono svaniti e le banche si ritrovano con crediti inesigibili di fronte a società che non esistono più.
Una tipica operazione da ‘ndrangheta emiliana. Nella quale però spicca un dato sottolineato in udienza nella deposizione dell’amministratore giudiziario. Le banche in questo caso, per i finanziamenti concessi alla Pilotta e alla Medea, non hanno visto riconosciuta dai tribunali la propria buona fede e non possono di conseguenza insinuarsi nei fallimenti. La procedura si snellisce ed è per questo che il capannone a Brescello di Francesco Grande Aracri potrà essere rapidamente riconsegnato alla comunità per ospitare servizi di Protezione Civile. Ma se le banche non sono incaute si crea un paradosso: i tempi di riassegnazione dei beni si allungano a dismisura, perché la buona fede autorizza a richiedere il riconoscimento del credito vantato sino al terzo grado di giudizio. Un caso emblematico, per certi versi clamoroso, è quello relativo proprio ad alcuni immobili di Sorbolo: 13 appartamenti, 10 autorimesse e una cantina oggetto di sequestro, che dovevano essere assegnati ad uso foresteria alla Guardia di Finanza, per ospitare famiglie di militari. Il 18 dicembre 2018, due anni e mezzo fa, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini arrivò a Sorbolo di Parma per la consegna di quegli appartamenti durante una cerimonia pubblica, davanti ad un folto pubblico e alla presenza di magistrati, autorità civili e militari: “Sono orgoglioso di consegnare i beni confiscati. La mafia va aggredita nel portafoglio”, disse allora. Ma finita la festa, quegli appartamenti restarono e sono ancora oggi vuoti. Perché ancora è pendente in Cassazione il terzo grado del giudizio previsto sulla legittimità dei crediti vantati dalle banche e il Codice antimafia prevede la effettiva assegnazione dei beni solo all’esito finale del giudizio di “buona fede” dei creditori.
Speriamo che le famiglie dei finanzieri, pronte nel 2018 a trasferirsi a Sorbolo, abbiamo intanto trovato un altro tetto sotto cui dormire. Paolo Bonacini, Cgil Reggio Emillia