Nelle caserme degli investigatori che da decenni vanno a caccia dei latitanti di massima pericolosità c’è un detto non scritto ma vero fino in fondo: “Il miglior posto per nascondersi di uno ‘ndranghetista in fuga è casa sua”. E – a onor del vero – non è stato raro fino ad oggi veder scorrere le immagini di volti consumati dall’isolamento, di uomini catturati in bunker costruiti nelle Locride sotto gli alloggi in cui avevano residenza. Una beffa verrebbe da dire. Ma era il miglior posto davvero perché – come dice il procuratore Nicola Gratteri – un boss lontano dal luogo in cui comanda perde potere”. Anche da latitante. Pure la ‘ndrangheta fa le riforme e cambia pelle.
E allora c’è da dire che da tempo insiste una nuova rotta dei fantasmi delle famiglie mafiose calabresi, un eldorado che nasconde e protegge, che li fa sparire dai radar, ma non dal comando dei traffici e degli eserciti che sovrintendono: la penisola iberica. Ventre molle del traffico di hashish perché collocata sulla traiettoria marittima del Nord Africa, Spagna e Portogallo sono stati a lungo “buen ritiro” di ricercati di un certo standing: Francesco Pelle è l’ultimo caso.
Il narcos di san LucaIl 21 marzo scorso è finito in manette in Spagna, a Barcellona il narcotrafficante di San Luca (come Pelle d’altronde) Giuseppe Romeo, sfuggito all’arresto nell’operazione “European ‘ndrangheta connection” in cui aveva rimediato una condanna in primo grado a 20 anni di detenzione. Noto negli ambienti investigativi come “U maluferru” o U pacciu”, Romeo era in grado di inviare 40 kg di cocaina al mese dall’Olanda verso la Calabria per accontentare gli appetiti del cartello di famiglia “Romeo-Pelle-Costadura”.
L’arresto del “Vangelo”
E sempre a Barcellona il 10 ottobre scorso era finito in manette Vittorio Raso, tecnicamente un “Vangelo” dote apicale della ‘ndrangheta calabrese nella cosiddetta “Società Maggiore”. Quarantuno anni, soprannominato “l’esaurito”, originario di San Giorgio Morgeto (Rc), ma membro centrale della cosca “Crea” padrona della fetta criminale di Torino, Raso era stato arrestato dopo due anni di latitanza. Pochi giorni dopo, in attesa del riconoscimento della validità del Mae italiano (mandato di arresto europeo), è stato messo all’obbligo di firma per uno “svarione” dei giudici spagnoli. Ed è tornato un desaparecido. In fuga, anche lui. Ma sicuramente ancora in Spagna.
La morte di Dobermann
Ad Alicante, il 28 gennaio scorso era stato arrestato Francesco Sforza, 40 anni, torinese, narcos che riforniva le famiglie di ‘ndrangheta di Volpiano e San Giusto Canavese (provincia di Torino). Di lui si sa che lo chiamavano Dobermann e che è morto misteriosamente il 2 febbraio durante il trasporto dalla cella di sicurezza della caserma di Benindorn al penitenziario.
Sforza si sarebbe dovuto presentare a processo il successivo 9 febbraio a Torino. Poche ore ancora e sarebbe stato giudicato dal Tribunale per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga.
Il broker dei calabresi
Ma è in Portogallo che ormai sei anni fa era stato fermato dai carabinieri del Ros Nicola Assisi, principale broker della ‘ndrangheta (responsabile dell’invio di tonnellate di cocaina verso il nostro paese) in contatto con i cartelli del Sud America. Era appena sbarcato a Lisbona dal volo TP0030 della compagnia aera Tap Portugal in arrivo dal Brasile. Aveva un passaporto falso a nome Javier Varela, ma la nostalgia della moglie lo aveva tradito. Nelle chat Blackberry parlavano della loro vacanza «clandestina», avevano finanche affittato una villa che costava 10 mila euro al mese. «Non vedo l’ora di vederti» scriveva lei nella chat che credeva blindata. Il Gico della Guardia di Finanza aveva però decriptato i messaggi con il software «Minerva». Assisi fu arrestato dai poliziotti del Serviço de Estrangeiros e Fronteiras, ma anche per lui – scarcerato in attesa di disbrighi giudiziari burocratici – scomparve di nuovo. Cinque anni dopo lo hanno fermato in Brasile. Stavolta definitivamente. Lo insegue una condanna a 30 anni di carcere ed è in attesa di estradizione. Giuseppe Ligato, La Stampa