Il 3 novembre scorso, di sera, dopo 10 anni di epopea giudiziaria, calava il sipario su Minotauro, maxi operazione dei carabinieri contro le ’ndrine calabresi dislocate al Nord. L’ultimo stralcio del processo si chiudeva a Roma, in Cassazione, con condanne per tre generazioni della mafia calabrese. Tra queste, di certo, risaltava il nome – e l’esito giudiziario – di Rosario Marando, 53 anni, originario di Platì, affiliato al «locale” di Volpiano, condannato in via definitiva a 3 anni e 6 mesi di carcere per mafia. Nemmeno il tempo di vedersi notificare il provvedimento che Marando – fratello del defunto boss dei due mondi Pasqualino ed esponente di una dinasty che ha governato per due decenni il traffico internazionale di cocaina – si è ritrovato in libertà. Non sconterà nemmeno un giorno di quella condanna che avrebbe dovuto essere espiata per intero e senza liberazioni anticipate per via della natura «ostativa» del reato per cui si procedeva: 416 bis. Tutto merito dell’istanza del suo legale Giovanna Beatrice Araniti e di una sentenza di Cassazione (del 1996) che parte dal principio cosiddetto del “favor rei” (in favore del colpevole). Semplificando a Marando viene contestato in Minotauro un reato che inizia a decorrere nel 1996 e prosegue fino al 2011. Ma in questo frangente lui ha scontato numerosi anni di carcere per altri processi come Igres della Dda di Reggio Calabria. In diverse pronunce si è proceduto a calcolare una pena inglobata, cumulativa ma per la legge se questo avviene, allora bisogna immaginare che si scontino prima i reati ostativi (mafia ad esempio). Ed ecco che la condanna per Minotauro è stata dunque retrodatata e la pena rimasta (3 anni e 4 mesi) si riferisce a reati per cui può accedere a misure alternative al carcere. Giuseppe Ligato, La Stampa