In carcere da 44 anni, Domenico Papalia da Platì è il re delle cosche calabresi. L’impegno dei Radicali e la campagna di stampa: don Micu, condannato all’ergastolo (e malato), potrebbe lasciare presto il carcere. I boss di Buccinasco aspettano il loro capo e il delitto di Paolo «Dum Dum» Salvaggio ha attirato troppa attenzione su Buccinasco
Micu Papalia per i ragazzi di Platì è una sorta di Che Guevara che si batte per il bene contro il male. Un brigante Musolino dei giorni nostri, una vittima della giustizia che sta pagando per tutti. Un uomo straordinario mitizzato, idealizzato, adorato come un santo vivente e rispettato perfino dai bambini.
Quella di Domenico Papalia è una delle storie più incredibili che la ‘ndrangheta possa raccontare. Il capo di una delle cosche più potenti e violente della mafia calabrese. È in carcere ininterrottamente da 44 anni, dai magistrati è considerato «una delle figure più autorevoli, in assoluto, dell’intera organizzazione mafiosa» calabrese. Il padrone di Milano, della Lombardia, di mezzo Nord Italia e della Calabria aspromontana. Il nome con il quale tutte le cosche venute al Nord a moltiplicare i loro affari devono confrontarsi. E dal quale passano ancora oggi gli equilibri dei clan. Soprattutto adesso che don Micu potrebbe riavere la libertà.
La famiglia e i territori
È il fratello di Antonio e Rocco Papalia. Il primo è ancora in carcere condannato all’ergastolo e oggi scrive poesie, il secondo è fuori da quattro anni, tornato a Buccinasco dopo 26 di galera. Dice di fare la vita del pensionato, non sopporta giornalisti e politici che gli parlano della mafia al Nord.
La sua non è solo la storia di un uomo e di una famiglia di ‘ndrangheta, ma è la lente a volte concava altre convessa attraverso la quale leggere la storia di un potere mafioso mai venuto meno. Oggi che, dopo l’agguato al narcos Paolo Salvaggio, qualcuno lancia l’allarme per una guerra di mafia imminente alle porte di Milano. Guerra che non c’è, così come tra Corsico, Buccinasco e Cesano Boscone mai nulla è cambiato. E mai potrebbe cambiare, perché oggi il destino della famiglia più potente della mafia al Nord passa attraverso la storia personale di un uomo diventato una reliquia vivente. E per questo adorato e potente come un dio.
Il «fiore» ereditato dalla madre
Domenico Papalia ha 76 anni. Nasce nella minuscola Platì, sulle pendici ruvide dell’Aspromonte reggino, alla vigilia della fine della guerra: il 18 aprile del ‘45. La sua non è una famiglia di ‘ndrangheta. O almeno a quel tempo è difficile capire a Platì cosa sia davvero la ‘ndrangheta. Perché il paese è un mondo chiuso, di pastori che s’arrampicano in montagna come le capre, che vivono in condizioni forse perfino peggiori di quelle di cent’anni prima.
Il «fiore», la dote dell’affiliato, la eredita per sangue di madre. Suo padre Giuseppe, classe 1905, detto ‘u Carciutu, sposa infatti Serafina Barbaro (1918) , figlia dei capostipiti della famiglia: Francesco Barbaro (1873) e Marianna Carbone (1877). Dai loro dieci figli derivano gli otto rami della cosca: Barbaro Castanu, Barbaro Rosi, Barbaro Nigru, Barbaro Pillaru, Perre Maistru, Sergi Mbilli, Trimboli Piseja e, appunto, Papalia Carciutu. I coniugi Papalia hanno otto figli, ma sono soprattutto tre — Domenico, Rocco e Antonio — a diventare i principali protagonisti dell’espansione mafiosa nel Nord Italia nei decenni successivi.
Da Platì al Nord Italia
Fino al ‘74 a guidare la cosca di Platì è Pasquale Agresta, una volta morto sono i Barbaro a prendere il bastone del comando. È in quegli anni che Platì vede l’emigrazione di un migliaio di abitanti, un quinto della popolazione come riferiscono Nando dalla Chiesa e Martina Panzarasa nel volume «Buccinasco». Del flusso migratorio che parte verso Nord fanno parte anche i tre fratelli Papalia: sono giovani, hanno carattere, sanno rispettare le regole e soprattutto la famiglia.
Il nodo della forza dei Barbaro, come ricostruisce il pentito Saverio Morabito, è «nei matrimoni incrociati tra famiglie che sono serviti a mantenere la pace a Platì». Barbaro, Papalia, Marando, Agresta, Perre, Sergi, Trimboli, Musitano, Molluso, sono tutti cugini, un’unica grande famiglia allargata. Antonio e Rocco si stabiliscono a Buccinasco, che a quell’epoca è un mucchio di cascine a ridosso del Naviglio Grande.
Tra Roma e Buccinasco
Domenico formalmente risiede a Roma ma è sempre a Buccinasco. La sua personalità, le amicizie, la dedizione alle regole con la quale si muove, i rapporti stretti con i potenti De Stefano, ne fanno da subito un punto di riferimento per il resto della ‘ndrangheta. «È uomo che ha onorato ”l’onorata società” anche in carcere, essendo persona che anche lì ha aiutato i detenuti e si è preoccupata di non far mancare niente a nessuno», così lo racconta il pentito Giacomo Lauro.
Ancora più esplicito lo ‘ndranghetista Francesco Molluso: «È una persona fatta così che, se sapeva che due compaesani andavano a litigare faceva di tutto per non farli litigare». Quando nel 1964 muore il fratello Pasquale, ucciso da un amico, lui sposa la moglie Elisabetta Marando rimasta vedova. Nel ‘74 nasce il loro unico figlio Pasquale. È l’erede al trono designato.
Ma come in tutte le grandi dinastie c’è una grande tragedia. E arriva la notte di Capodanno del 1993: Pasqualino Papalia, 19 anni, viene colpito alla testa da un proiettile vagante durante i festeggiamenti a Platì. Si teme una faida e nel paese calabrese arrivano i vertici delle forze dell’ordine e dell’intelligence italiana. In quel periodo l’ormai boss Micu Papalia è in carcere. L’autore dello sparo non si scoprirà mai. Le voci parlano di un cugino del ramo dei Barbaro. Alla fine dal carcere Domenico, distrutto dal dolore, decide di donare gli organi del figlio. «Forse lo ha fatto per farsi pubblicità, o forse perché è davvero uno generoso — le parole del pentito Morabito —, da questo punto di vista è ammirevole, non a caso ha una forza carismatica che pochi hanno».
Don Micu e il delitto del boss D’Agostino
Ma perché Micu Papalia era in carcere? In realtà ci entra giovane, a soli 32 anni e con una condanna all’ergastolo sulla testa. Il 2 novembre del ‘76 a Roma, fuori da un ristorante, viene ucciso il boss emergente Antonio D’Agostino. In quel momento è insieme a Papalia. La tesi dei magistrati è che sia stato proprio don Micu a ordire la trappola. I killer, infatti, lo sfiorano soltanto. Ma sembrano accanirsi su D’Agostino. I giochi finiscono qui: carcere a vita.
Dal giorno del suo arresto, nel 1977, Domenico Papalia vedrà il mondo solo durante i permessi premio. Permessi sui quali molte ombre vengono gettate da diversi investigatori, perché si dice che Papalia abbia beneficiato ben oltre il consentito di un trattamento carcerario particolare. Anche grazie a strani rapporti con forze dell’ordine e servizi segreti.
L’omicidio Mormile e la Falange Armata
Una tesi poi confermata dalle indagini sull’omicidio di Umberto Mormile, educatore del carcere di Opera ucciso nel ‘90 da due sicari a Carpiano (Milano). Il delitto viene rivendicato dalla Falange Armata, la stessa misteriosa sigla che rivendicherà le stragi di Cosa Nostra e i delitti della Uno Bianca a Bologna. A farlo uccidere sarebbe stato proprio Papalia, dal carcere, dopo il rifiuto di stilare una relazione favorevole per fargli ottenere permessi premio. Mormile, in realtà, aveva scoperto e denunciato pubblicamente strani colloqui con agenti dei servizi e Papalia. Una circostanza che non poteva essere pagata che con la vita. Si tratta della seconda condanna all’ergastolo per don Micu.
La terza, oltre a vari anni di carcere per sequestri e altri reati, arriva dall’operazione Nord-Sud del 1993 nata dalle dichiarazioni di Morabito alla Criminalpol e al pm Alberto Nobili. Anche qui Papalia è mandante di un delitto, sempre dal carcere: quello dell’avvocato Pietro Labate ucciso a Milano nel 1983. Secondo i magistrati, Papalia durante la detenzione sovraintende agli affari della cosca e indirizza i fratelli Rocco e Antonio. Il primo soprattutto nelle attività di riciclaggio e imprenditoriali, il secondo nella guida del narcotraffico, dei sequestri e della struttura di ‘ndrangheta della «Lombardia».
Il Maurizio Costanzo Show e la tessera dei Radicali
Questa è la storia criminale di don Micu. Ma non è una storia che si ferma qui. Nel 1993, quando ancora Papalia è accusato soltanto dell’omicidio D’Agostino, inizia a crearsi un movimento di opinione pubblica che ne chiede la scarcerazione. In seconda serata, al seguitissimo Maurizio Costanzo Show, il giudice romano Ferdinando Imposimato chiede scusa «roso dai morsi della coscienza» per aver rinviato a giudizio Papalia e parla della condanna ingiusta di un innocente. Il caso esplode sui giornali.
La trasmissione Detto tra noi di Rai due dedica una puntata speciale al caso direttamente da Platì che sembra anticipare il processo mediatico che vedremo alcuni anni dopo tra plastici e quarto grado. Le telecamere sono in piazza, vengono intervistati i parenti, anche il giornalista dell’Europeo Antonio Delfino, la figlia adottiva Sara (figlia del fratello Pasquale). Ad un certo punto viene trasmessa un’intervista dal carcere a Micu Papalia «ergastolano innocente», come recita il «sottopancia». Lui è tranquillo, quasi dimesso, chiede la revisione del processo. Dice che sicuramente nessun giudice è contento di «dare l’ergastolo».
Il caso Papalia entra al centro del dibattito sulle carceri, sono soprattutto i Radicali a spingere per la revisione del processo. Partito al quale Papalia si iscrive dal carcere. L’eco mediatica non è ancora spenta quando il boss di Altofonte, Nino Gioè, muore suicida nel carcere di Rebibbia il 28 luglio 1993. Non c’entra nulla con la ‘ndrangheta, è stato anzi uno degli uomini di fiducia del boss stragista Totò Riina. Nella lettera d’addio Gioè cita senza motivo il caso di Papalia e dice di essere certo della sua «innocenza». La storia però è incredibile sul serio.
E nel marzo 2017, più di quarant’anni dopo, avviene qualcosa di inaspettato. La Corte d’assise di Perugia ribalta la condanna irrevocabile dall’84 per l’omicidio D’Agostino: Papalia è innocente, non è vero che ha organizzato l’agguato e soprattutto nuove perizie balistiche escludono che sia stato lui stesso a sparare, da vicino, uno dei colpi che hanno ucciso il boss. Un caso più unico che raro nella storia giudiziaria.
In cella ininterrottamente dal 1977
Don Micu è però ancora in carcere per scontare gli altri due ergastoli che nel frattempo sono diventati definitivi. Essendo un boss della mafia non ha la possibilità, dopo l’inasprimento del codice seguito agli attentati a Falcone e Borsellino, di usufruire di permessi premio o liberazione anticipata. Per questo è in cella ininterrottamente dal 1977. Anche questo, a suo modo, ne fa un caso più unico che raro.
Papalia però non si arrende. Attraverso i suoi avvocati, con più istanze, chiede che gli venga riconosciuta «l’impossibilità o inesigibilità della collaborazione con la giustizia» per i reati precedenti. In sostanza sono trascorsi così tanti anni e le ricostruzioni degli inquirenti erano così precise già allora che anche un pentimento attuale di Papalia non potrebbe fornire elementi significativi. La richiesta nasce dalla speranza di usufruire così di una liberazione anticipata. I ricorsi, anche in Cassazione, cadono tutti nel vuoto. È entrato in cella analfabeta, s’è diplomato e ha frequentato anche alcuni corsi universitari.
La malattia
Nel frattempo Domenico Papalia si ammala. Gli viene diagnosticato un carcinoma alla prostata. Tornano così a moltiplicarsi gli appelli pubblici per la liberazione con tanto di richiesta di grazia parziale al Presidente della Repubblica, ancora pendente. Elisa Zamparutti, sulle pagine del Riformista (15 maggio 2020) chiede che «sia concessa la grazia a Papalia in carcere da mezzo secolo». Il Dubbio, il 12 ottobre 2021, riprende l’appello dell’associazione «Yairaiha Onlus» che ha segnalato il peggioramento delle sue condizioni di salute nel carcere di Parma. «È malato. E non lo mandano fuori a curarsi, sta molto male. È una vergogna dopo 50 anni di galera», denuncia la famiglia Papalia.
Le richieste si moltiplicano, dai Radicali a Nessuno Tocchi Caino che insieme organizzano l’1 ottobre 2021 nel carcere di Parma una conferenza per chiederne la liberazione: «Il partito della nonviolenza, il partito di Marco Pannella, diventa la sua fede politica. Oggi Domenico testimonia la nonviolenza, anima e incarna il suo cambiamento nei laboratori “Spes contra spem” di «Nessuno tocchi Caino» nel carcere di Parma». Nel frattempo i legali, Ambra Giovene e Daniela Paccoi, presentano una nuova istanza di differimento pena per chiedere che Papalia possa curarsi in una struttura adeguata ma fuori dal carcere. Finora però il Tribunale di sorveglianza ha sempre rigettato le altre richieste (questa è ancora pendente) valutando idonee le cure offerte dal penitenziario.
Don Micu e Paolo Salvaggio
Cosa c’entra però la storia di un uomo, boss ergastolano e al tempo stesso riconosciuto anche come vittima di un errore giudiziario, con l’omicidio di Paolo Salvaggio? Nulla. O meglio c’entra moltissimo con gli equilibri della ‘ndrangheta a Buccinasco e al Nord in generale perché gli affiliati, e non solo al clan Barbaro-Papalia, attendono con ansia la possibile uscita di cella di Domenico.
Un simbolo, ancora prima che uno dei boss più importanti della mafia calabrese. Per questo motivo da anni i padrini di Buccinasco hanno scelto la strada del silenzio e hanno cercato di spegnere il più possibile i riflettori sulla loro presenza. Era già successo nel 2012 quando l’operazione «Platino» dei carabinieri aveva svelato i nuovi assetti della cosca in vista della possibile scarcerazione di Rocco Papalia.
Liberazione che poi era avvenuta comunque portando con sé strascichi di polemiche, insulti e minacce ai giornalisti e intemperanze del boss che gli sono costati un periodo a Vasto in una casa lavoro. Ma ora con la riapertura del dibattito sull’ergastolo ostativo la ‘ndrangheta spera nello stesso destino per Antonio e soprattutto per Domenico. Motivo per il quale la presenza delle cosche sta cercando di fare meno rumore possibile a Corsico e Buccinasco come a Milano.
Una strategia che aiuta gli affari e potrebbe favorire una decisione del giudice lasciando passare in secondo piano la «pericolosità sociale» di Papalia e il suo ruolo, mai abbandonato secondo l’Antimafia, di capo e stratega della famiglia. Ecco perché un omicidio eccellente, dalle modalità «molto mafiose», potrebbe aver danneggiato e parecchio la strategia del basso profilo dei boss. Anche per questo gli inquirenti dubitano molto di un coinvolgimento dei vertici della cosca nel delitto. Le indagini diranno se hanno ragione e i primi indizi sembrano testimoniarlo.
La rete di potere a Buccinasco
Ma chi comanda oggi a Buccinasco? Le ultime indagini sono ferme ad alcuni anni fa, con «Platino» e il procedimento «Missing» che aveva visto il coinvolgimento di Rocco Barbaro, detto u’ sparitu, nell’intestazione fittizia di beni per il bar «Vecchia Milano» di corso Europa. Gli altri procedimenti hanno riguardato vicende di droga da sempre, dopo la parentesi dei sequestri di persona, il primo canale di finanziamento della cosca.
Il vertice oggi è considerato, anche solo per ragioni squisitamente anagrafiche, nelle mani di Rocco Papalia il quale però ha sempre avuto un ruolo da comprimario rispetto ai più «pesanti» Domenico e Antonio. Con lui ormai liberi dopo anni di detenzione ci sono soprattutto nipoti e parenti. Come quel Domenico Trimboli detto Micu u Murruni, 61 anni, che ha sposato la prima figlia della moglie di Domenico Papalia, quella avuta con il fratello Pasquale. O ancora il nipote Domenico Papalia, detto Micu u bruttu, nessuna condanna per mafia, ma da sempre molto vicino allo zio.
A questo si aggiungono le nuove leve dei Sergi, storico clan della droga legatissimo ai Papalia, i Molluso, con il capostipite Giosafatto e il boss Francesco, e il genero di Rocco, Peppone Pangallo, che ne ha sposato la figlia Rosanna. O ancora il figlio di Rocco Barbaro, Francesco, che si vede spesso a Buccinasco, o Rosario e Salvatore Barbaro, discendenti di Domenico l’Australiano dei pillaru, o Giuseppe Barbaro, fratello di Rocco ‘u sparitu. Nuove e vecchie leve del clan, spesso senza alcun precedente per mafia.
Tutti uniti in questo momento nell’evitare qualsiasi contrasto o innalzamento del livello d’allarme. Perché la scarcerazione di Micu Papalia, quasi un Papa per la ‘ndrangheta, vale anche il rischio di perdere ben più di un affare criminale. Cesare Giuzzi, Corriere.it