Una sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria conferma che l’organizzazione ha un direttorio che decide per tutti. Composto da sei-sette persone, è guidato da Giorgio De Stefano, soprannominato “il padrino della ‘Ndrangheta”, in politica a Reggio da 50 anni, oggi condannato a 15 anni e 4 mesi. Il suo nome compare nella storia dei “moti di Reggio”, del golpe Borghese e della banda della Magliana
Esiste un organismo di vertice della ‘Ndrangheta e l’avvocato Giorgio De Stefano – penalista, ex consigliere comunale ed eminenza grigia della politica calabrese – è uno dei capi. Ad affermarlo, per la seconda volta e senza discostarsi dalla precedente pronuncia di primo grado, sono i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria.
È davanti a loro che è approdato il filone che si definisce con rito abbreviato del processo Gotha, scaturito dall’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e dai pm Walter Ignazzitto e Stefano Musolino. La prima che abbia teorizzato e poi provato in sede giudiziaria che la ‘Ndrangheta è un’organizzazione unitaria, ramificata, ma con una struttura tendenzialmente verticistica e piramidale. La prima che abbia dimostrato che c’è una struttura di pochi – il direttorio – che decide le macro-strategie cui tutta l’organizzazione è chiamata ad adeguarsi. I grandi accordi. Le linee guida su cui si muove la ‘Ndrangheta. È l’organismo chiamato in causa in occasione degli attentati continentali, a cui i clan calabresi – ha dimostrato in altra sede il processo ‘Ndrangheta stragista – hanno partecipato da protagonisti.
E Giorgio De Stefano, condannato in appello a 15 anni e 4 mesi di carcere, dopo i 20 rimediati in primo grado – una pena pesantissima se è vero che in abbreviato sono tutte diminuito di un terzo – è uno dei capi. Per il giudice che lo ha condannato in primo grado, fin dagli anni Novanta è stato un «vero e proprio capo ed organizzatore del sodalizio unitariamente inteso, in qualità di partecipe della componente “invisibile” della ‘ndrangheta – unitamente a pochi altri membri, nel numero di sei-sette, tra i quali certamente il sodale Romeo Paolo – struttura di vertice chiamata a svolgere compiti di direzione strategica e, in ultima analisi, di gestione “occulta” delle scelte di politica criminale del sodalizio di stampo mafioso». E la decisione dei giudici dell’appello non sembra discostarsi da tale valutazione.
Noto penalista, massone di alto rango, ex consigliere comunale che “solo per senso del pudore la Dc non nominò assessore” si leggeva negli articoli dell’epoca e che, secondo le vecchie note della prefettura, a fine giornata gli affiliati imponevano di non votare per il consenso bulgaro già incassato, De Stefano da oltre 50 anni è il dominus della politica a Reggio Calabria. E non solo. Nonostante una condanna per concorso esterno nell’inchiesta Olimpia, per decenni ha continuato ad avere voce in capitolo nella vita politica e amministrativa della città e dalla riva dello Stretto, in Calabria e nel Paese.
Insieme a Paolo Romeo, attualmente imputato come esponente del medesimo direttorio nel processo che si celebra con rito ordinario, il suo nome ricorre nella storia dei moti di Reggio, del golpe Borghese, della latitanza di terroristi neri come Franco Freda, persino della Banda della Magliana e del boom delle leghe regionali negli anni Novanta, ma anche di ogni singola consultazione elettorale che sia stata celebrata. È in in questo modo – è emerso nell’inchiesta e nei processi – che ha condizionato la vita economica, sociale, persino culturale della città. Allo scopo sono stati costruiti partiti ed alleanze in vitro, persino politici. Studiati, scelti, presi per mano e addestrati, come il “cane di mandria” – così lo definivano – Giuseppe Scopelliti, l’ex governatore della Calabria che ancora sconta una condanna per abuso d’ufficio e falso in atto pubblico e non indagato in questo filone, o creati allo scopo, come l’ex senatore Antonio Caridi, a processo in ordinario. È così che la ‘Ndrangheta – ha dimostrato l’inchiesta e confermato il processo – si è accaparrate tutte le risorse che a livello comunale, regionale, nazionale ed europeo erano state destinate allo sviluppo di Reggio e della Calabria e hanno finito per ingrassare l’organizzazione.
Il canale di intervento? Quelle logge in cui massoneria e ‘Ndrangheta perdono i rispettivi confini per diventare sistema criminale, capace di allungare i propri tentacoli fino in Parlamento, nei grandi centri economico- finanziari, nei salotti in cui definiscono i destini del Paese. Stessa palude in cui si reclutano quei “riservati” – soggetti insospettabili, non formalmente affiliati ma vitali per i clan – che permettono alla ‘Ndrangheta di muoversi in tutti gli ambienti. Il risultato – scrivevano i giudici di primo grado – è la costruzione e il consolidamento di “un sistema allargato di potere in cui convivono, in osmotico interscambio di uomini e mezzi, elementi di vertice del sodalizio criminale ed esponenti della società civile, dell’associazionismo, delle Istituzioni, delle Forze dell’Ordine, della Magistratura”. Un sistema pancriminale, lo hanno definito le inchieste successive, che esiste e decide ancora. Alessia Candito, Repubblica.it