Nei tanti rivoli giudiziari legati alla maxi operazione Aemilia c’è pure un procedimento per bancarotta fraudolenta – con l’aggravante mafiosa – che coinvolge ancora una volta la società “Trasmoter srl” (dedita al commercio di materiali da costruzione) e due persone legate a quell’azienda come già emerso in altri procedimenti: il calabrese 53enne Giuseppe Giglio (figura di primo piano del clan ndranghetista emiliano, ora collaboratore di giustizia) e il 49enne Valter Zangari (d’origine crotonese, ma residente a Montecchio).
La ditta era fallita nel febbraio 2014 – come stabilito dal tribunale di Mantova – ma era già finita nel mirino della maxi inchiesta Aemilia. Il filone investigativo incentrato sulla bancarotta fraudolenta si è chiuso – nell’aprile 2019 – con la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla pm antimafia Beatrice Ronchi nei confronti di Giglio e Zangari. Secondo il magistrato inquirente della Dda di Bologna, Giglio era l’amministratore di fatto della “Trasmoter srl” che utilizzava come esponente di vertice della cosca operante in Aemilia. Mentre Zangari rivestiva il ruolo di amministratore di diritto della società ed è ritenuto colui che, insieme a Giglio, ha distratto ovvero occultato e distrutto l’intero patrimonio aziendale (“pregiudicando la garanzia patrimoniale dei creditori sociali” si legge nel capo d’imputazione), inoltre “sottraevano, occultavano e distruggevano i libri contabili dell’impresa, allo scopo – viene rimarcato dall’accusa – di procurarsi un ingiusto profitto in danno ai creditori sociali, impedendo la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio”. Due anni fa a Bologna, in udienza preliminare, davanti al gup Domenico Truppa il pentito ha patteggiato, mentre Zangari (difeso dall’avvocatessa Raffaella Pellini) è stato rinviato a giudizio in tribunale a Reggio Emilia. Un processo rimasto a lungo sotto traccia, complice anche il lockdown, quindi dopo alcune udienze tenutesi l’anno scorso, l’accelerata è avvenuta di recente con la pm Ronchi che ha chiesto per il 49enne una dura condanna (6 anni di reclusione). Di diverso parere la Corte – presieduta da Giovanni Ghini, a latere le colleghe Antonella Bove e Silvia Semprini – che ha emesso una condanna ad un anno di reclusione, ma con pena sospesa.
I giudici hanno parzialmente accolto la ricostruzione difensiva ed eliminato l’aggravante mafiosa. Come sostenuto dalla difesa anche in Aemilia, Zangari aveva bisogno di lavorare, di guadagnare qualcosa per sfamare la famiglia numerosa (moglie e quattro figli) ed era finito “fra gli artigli” di Giglio diventando un esecutore dell’imprenditore, senza mai mettere parola od occuparsi su quanto accadeva in società. Tiziano Soresina, Gazzetta di Reggio